Progressive



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Live Report: Opeth + Paatos @ Alcatraz, Milano – 06/10/2025

Live Report: Opeth + Paatos @ Alcatraz, Milano – 06/10/2025
Photo report completo: Photo Report: Opeth + Paatos @ Alcatraz, Milano – 06/10/2025 – truemetal.it

Milano, 6 ottobre 2025: è di nuovo lunedì, ma questa volta l’inizio settimana è decisamente dei migliori: dopo tre anni di assenza dai palchi italiani, gli Opeth tornano nel nostro Paese per un’unica data, in un Alcatraz pronto a sfiorare il soldout.

Paatos

Con loro sul palco un’altra band svedese, i Paatos, guidati dalla cantante Petronella Nettermalm: la sua voce sembra effettivamente essere il collante di una serie di strumenti presenti sul palco, alcuni anche insoliti, come il gong, che riproducono un genere musicale piuttosto simile al progressive anni ’70, psichedelico allo stesso modo.

La band è attiva dal 1999 con una discografia composta da sei album studio, l’ultimo dal titolo Ligament uscito lo scorso aprile. Alcuni dei brani presentati sono proprio tratti da quel disco, come “Chemical Escape”, “Beyond The Forest”, registrata con la partecipazione di Mikael Åkerfeldt, “Last One Of Our Kind” e la stessa “Ligament” che dà il nome al disco. Il viaggio psichedelico continua anche con brani più datati, come “Gone”, “Won’t Be Coming Back” e “Téa”, cantata in svedese: la parti strumentali sono atmosferiche e introspettive, a volte anche in crescendo, e sorprendentemente catturano l’attenzione del pubblico che risponde a proprio modo, battendo le mani a tempo.

Una band d’apertura che a primo impatto può sembrare una scelta azzardata, che non solo incontra riscontro positivo e partecipe, ma scalda gli animi al punto giusto per le due ore di spettacolo successive dei padroni di casa della serata.

Martina L’insalata

Opeth

MC² Live riporta nel nostro Paese gli alchimisti prog-metal svedesi Opeth, con il tour a supporto dell’ultimo album The Last Will and Testament (leggi qui la nostra recensione).
La band guidata da Mikael Åkerfeldt si è esibita lunedì 6 ottobre 2025, in un Alcatraz di Milano, completamente gremito di fan desiderosi di sentire come suonasse l’album dal vivo, e noi di TrueMetal eravamo tra questi.


Il tour del loro quattordicesimo lavoro in studio, iniziato lo scorso febbraio in Finlandia, nel corso dei mesi ha visto via via aggiungersi nuove date, tra le quali fortunatamente questa attesissima tappa italiana.
Questo album ha ricevuto un importante riconoscimento ai Grammis svedesi 2025, aggiudicandosi il premio per la categoria “Best Hard Rock & Metal”. Atteso da molti anche per il ritorno di Mikael Åkerfeldt al growl dai tempi dell’ormai lontano Watershed del 2008, viene celebrato a dovere in questo tour, senza tralasciare il resto della loro discografia, ben rappresentata nella scaletta di questa sera.
Gli Opeth vengono da un’altra dimensione, non ci sono storie. Potenti e al contempo precisi, alternano nuovo e vecchio repertorio per la gioia di tutti i fan che hanno riempito fino all’orlo il locale di via Valtellina.
Piacendo così sia ai seguaci della vecchia che della nuova scuola, la band ha scelto di proporre dal vivo al suo pubblico, tre brani dall’ultimo disco: “§1”, in apertura al concerto, “§3”, “§7” e poi alcune perle estratte dai loro precedenti lavori, delle vere e proprie chicche; leggendo questo live report scoprirete a quali mi riferisco in particolare.
Andiamo con ordine però, e addentriamoci insieme nella lettura di parte di questo testamento del tutto particolare, che in sede live trova la giusta sede di espressione, grazie anche alle incredibili doti interpretative, quasi teatrali, di Åkerfeldt.
È la terza volta quest’anno che vedo gli Opeth, imprevedibili quanto magistrali nell’esecuzione in sede live dei propri brani che dal vivo sono perfetti come ascoltarli su cd. Nel corso della loro trentennale carriera, si sono affermati come pionieri del “progressive metal”, creando un’eredità che prospera grazie alla reinvenzione e all’esplorazione audace di cui sono capaci. Noti per la loro perfetta fusione tra l’aggressiva intensità del death metal e l’eleganza del prog, le leggende svedesi continuano a sfidare ogni rigida categorizzazione, regalandoci concerti strepitosi.
Quando i Paatos hanno terminato il loro set, l’aria all’interno del locale di via Valtellina si è fatta sempre più densa, e la tensione era più che palpabile, in attesa di quello che sarebbe stato a breve. Dopo averli visti a febbraio a Berlino e ad agosto al Brutal Assault, rieccomi al cospetto di questo colosso del death progressive metal svedese, e non vedevo l’ora.


La transizione tra la fine della prima esibizione, la giusta pausa nel mezzo, e l’inizio del live degli Opeth, è quasi eterea, come se l’intero locale stesse trattenendo il respiro. Le luci si abbassano mentre viene rivelato il palco allestito per loro, in questa atmosfera di silenziosa riverenza con un leggero brusio di fondo.
Tutt’ad un tratto il silenzio viene interrotto bruscamente, poi ci pensano i rumori sinistri e gli scricchiolii che introducono il primo singolo “§1” a scuotere gli animi dei presenti. Mikael Åkerfeldt appare tra l’ombra e la luce come una figura quasi spettrale, con inquietanti sonorità di linee di chitarra e le malinconiche tastiere a fare da sfondo.
Fin da subito si capisce come i suoni saranno praticamente perfetti per tutta la serata, con i visual alle loro spalle a creare ulteriormente quel fascino aristocratico ed allo stesso tempo oscuro che permea tutta la loro musica. L’aura di mistero, oscurità e dramma che avvolge in particolar modo quest’ultimo, il mood sinistro che sta alla base di molti dei loro brani, è stata a mio avviso purtroppo rovinata troppe volte da un pubblico non troppo rispettoso. Chiacchiericcio continuo, risate, versi e grida a sproposito, per non parlare dei cori da stadio, li ho trovati davvero fuori luogo per un gruppo come gli Opeth. Che poi, Mr. Åkerfeldt ci abbia scherzato su, raccontandoci aneddoti della sua non troppo fortunata carriera calcistica, ok, ma davvero, è stato un po’ troppo. Come non centravano assolutamente i poghi venutesi a creare nel pit, e che hanno certamente infastidito i molti fan che volevano godersi il concerto in santa pace. Chiusa la polemica sul pubblico, veniamo al live vero e proprio.
Il palco è immerso in ombre scure e scene di una immaginaria casa vittoriana che danzano alle spalle di questi cinque musicisti che, come sempre, sembrano “una cosa sola”. Talmente tanta la chimica tra loro da lasciarci tutti quanti sbalorditi.


Il protagonista del palco è spesso il carismatico frontman Åkerfeldt: il suo growling è feroce, mentre con la voce pulita riesce ad essere versatile ed espressivo. Prende molta attenzione durante lo spettacolo con le sue pungenti freddure, e lo amiamo anche per questa sua ironia del tutto singolare, ma dobbiamo anche elogiare gli altri musicisti della band. Martin Mendez al basso, il tastierista Joakim Svalberg, che ha gestito le parti degli archi con il suo mellotron, Fredrik Åkesson alla chitarra e il fenomenale Waltteri Väyrynen, completamente a suo agio nel combo svedese, dopo questi ultimi due anni trascorsi insieme dietro la batteria. Avendo solo 30 anni, è più giovane della band stessa, ma si adatta perfettamente e questa differenza di età oltre che di esperienza non si nota affatto


Nonostante le numerose battute di Åkerfeldt sul fatto di essere un gruppo “vecchio” con brani datati, il quintetto progressive metal è in perfetta forma, e ci ha regalato ancora una volta una performance sopra le righe.
Dall’apertura di basso di Martin Méndez in “§1”, dove il growl di Åkerfeldt diventa spesso un modo per esprimere i passaggi più cupi delle ultime volontà del patriarca lette ai tre figli superstiti, due gemelli maschi e ragazzina affetta dalla poliomielite, il set si è immediatamente tuffato nelle profondità di “Master’s Apprentices” da Deliverance (2002). Le chitarre pesanti e serrate di questo brano scatenano l’headbanging dell’intero Alcatraz, a tempo con la sezione ritmica, in questo rito collettivo quale è un concerto vissuto con intensità e passione sia da chi sta sopra il palco che sotto.
La band, come detto, è in perfetta sincronia, passando senza sforzo da una pesantezza schiacciante a passaggi melodici inquietanti. Le luci cambiano spesso, accentuando l’atmosfera cupa e spettrale spesso contenuta nelle loro canzoni.


La parte di pubblico che resta in riverente silenzio per tutta la durata dello spettacolo, lo interrompe solo per gli applausi. Sui visi di tutti si legge stupore e meraviglia nel guardare gli Opeth destreggiarsi tra gli intricati tempi e le complesse strutture delle loro canzoni con una semplicità quasi imbarazzante.
Con un profondo senso di irrequietezza che aleggia perennemente nell’aria, le melodie di “The Leper Affinity” da Blackwater Park (2001), ci travolgono toccandoci in profondità nell’anima: improvvise esplosioni di aggressività prima di scivolare in passaggi più calmi e malinconici, questa è l’essenza degli Opeth e della loro produzione.
Un loro concerto è un perfetto connubio tra ferocia death metal e grandiosità progressive, accompagnato e supportato dall’ottimo uso delle luci, coinvolgendo sempre più il pubblico che ha riempito l’Alcatraz di Milano in questa data organizzata da MC² Live.
Arriva il momento di “§7”, un altro brano tratto dall’ultimo lavoro, con le sue melodie di basso che sembrano vibrare nell’aria con una sensazione sinistra, quasi spettrale. Un brano che suona come tre diversi messi insieme. Åkerfeldt, con la sua solita ironia, riflette ad alta voce insieme a noi su come questo sia un brano difficile da suonare, non riuscendo a capire perché l’avesse scritto proprio in questa maniera. Una sezione ritmica potente che ben rende l’idea del senso di maligno menzionato nel testo della canzone. Ian Anderson, anche qui, presente su disco con i suoi flauti e a volte anche la voce, a impreziosire ulteriormente la resa finale del brano.


Si fanno poi strada tra noi ormai completamenti persi in questa bellissima atmosfera, le note di “The Devil’s Orchard”, dal più che controverso Heritage (2011), con i suoi riff vorticosi e i ritmi ipnotici, che dal vivo funziona perfettamente, meglio ancora che su disco a mio parere. L’interpretazione di Åkerfeldt, completamente in pulito come nell’intero album, ancora una volta risulta essere impeccabile.
Segue a ruota “To Rid the Disease”, da Damnation (2003), con la sua atmosfera cupa ad accompagnarla. Una quasi ballata mi verrebbe da definirla, disperatamente dolce e lugubre allo stesso tempo, con la bellissima voce di Åkerfeld come fil rouge, a contribuire ulteriormente alla creazione di sentiti brividi lungo la schiena di molti dei qui presenti, io ed il mio compagno Luca in primis.
“The Night and the Silent Water”, da Morningrise (1996) suona invece più come una minaccia, sembra quasi che in queste atmosfere temporalesche una sventura si stia per abbattere sul locale di via Valtellina. Åkerfeldt ricorda con piacere la prima volta in Italia, in quel tour di supporto i Cradle of Filth, nominando un locale con le bare appese ai muri (era il caro vecchio Transilvania di Milano). Eppure, caro il nostro Mikael, in quel tour avete suonato al Rainbow, e ci sono video su YouTube a riprova di questo. Probabilmente ha fatto confusione con altri concerti, visto che gli Opeth sono poi tornati in Italia, proprio al Transilvania, ad esempio nel 2001 con Novembre e Katatonia e nel 2003 con i Madder Mortem.

Segue a ruota l’inquietante “§3”, il terzo brano tratto da The Last Will and Testament: bagliori bianchi e blu ad aggiungere un tocco quasi ultraterreno a questo ennesimo splendido brano riproposto dai nostri in maniera magistrale, dove non si sente affatto la mancanza del growl di Åkerfeldt compensata, se vogliamo così dire, da un’impressionante sezione ritmica.
“Heir Apparent” da Watershed (2008) è stata una vera chicca. Molto intensa, con un’introduzione minacciosa, furiosa come tipico nel death metal, che lascia poi spazio alle aperture classiche del progressive. Un brano che rappresenta in pieno questa loro enorme capacità e bravura nel mischiare sapientemente, come il migliore degli alchimisti, questi due generi così distanti tra loro, che con la loro musica si fondono invece alla meraviglia. Il tocco potente e personale di Åkerfeldt nell’interpretazione dei testi è poi la ciliegina sulla torta.
Non abbiamo tempo di riprenderci da un’emozione che ne arriva subito un’altra, potentissima e fragorosa, come solo un brano monumentale che ha fatto la storia che va sotto il nome di “Ghost of Perdition”, dal monolitico album Ghost Reveries (2005) sa regalarci. Senza soluzione di continuità si alternano momenti di caos ad altri di pura bellezza. L’illuminazione cambia ancora una volta, oscillando tra il rosso e il blu, proiettando lunghe ombre inquietanti sul palco mentre la canzone raggiunge il suo apice e il nostro godimento con essa. Altro aneddoto raccontato da Åkerfeldt su questo incredibile brano riguarda Gene Hoglan, che sembra abbia imparato questo brano in circa tre ore sul tour bus degli Opeth provando con un cuscino, il che è tutto dire sulle sue note capacità di batterista.
La mastodontica “Deliverance”, ed i suoi intensi 14 minuti, è stata la chiusura perfetta della serata. La potenza devastante di questa canzone rappresenta in pieno la maestria musicale degli Opeth, che questa sera, qualora ce ne fosse bisogno, hanno dimostrato ancora una volta la loro capacità di spingere oltre i confini del metal.
Sono le 23 quando siamo purtroppo costretti a risvegliarsi da questo sogno incantato durato ben due ore durante il quale il tempo sembra quasi essersi fermato, come intrappolato dalla musica degli Opeth, in grado di trascinarci nelle sue complesse e vorticose melodie che vorremmo non finissero mai.


Un’esperienza tanto cerebrale quanto viscerale, in grado di alterare le nostre anime in maniera irreversibile; un flusso costante di nuove emozioni che ci ha tenuto coi piedi sollevati da terra per tutta la durata del concerto.
Due ore di musica eseguita in maniera magistrale, con inframezzi scherzosi grazie all’humour singolare del frontman, chiamato più volte dai fan italiani Michele, cosa che sembrava tutto sommato divertirlo.
Un Akerfeldt che non manca di omaggiare alcune delle band fondamentali del prog italiano, per conosce e per cui ammette un amore sconfinato.
La lettura di questo testamento si conclude qui, con contrasti e ad accostamenti che solo gli Opeth riescono ad esprimere con una grazia senza eguali: death metal, progressive, piano e flauti si uniscono alla perfezione nella loro musica, non facile certo, ma che rappresenta da sempre la cifra stilistica di questi giganti svedesi dalla personalità assolutamente peculiare.
Era chiaro fin dall’inizio che questa sarebbe stata una serata speciale, una storia oscura ed enigmatica raccontataci da un oratore d’eccellenza attraverso melodie intricate che sanno catturare l’attenzione in maniera continuativa senza annoiare mai. Raramente capita di assistere ad un’esibizione live che duri più di 90 minuti, e gli Opeth anche in questo stupiscono, con una durata media dei loro concerti di quasi due ore e mezza.
Grazie alla loro immensa padronanza tecnica riescono a riprodurre fedelmente anche in sede live le loro intricate composizioni, fondendo abilmente l’aggressività del death metal con l’introspezione del rock progressivo, con una facilità disarmante.
La giustapposizione tra riff progressive ed il potente ringhio di Åkerfeldt ha sempre reso questa band speciale per i tantissimi fan e per il mio compagno Luca, che ringrazio per avermeli fatti scoprire ed apprezzare. Gli Opeth con il loro stile inconfondibile e le eccellenti doti prog rock messe in mostra ad ogni occasione, mi hanno aperto un mondo completamente nuovo, facendomi capire che si può fare metal anche con i flauti, per semplificare il concetto.
Album come Blackwater Park, Deliverance e Ghost Reveries fino ad arrivare a quest’ultimo The Last Will and Testament, hanno confermato come gli Opeth siano una delle band più innovative e venerate nel mondo del metal, con pieno diritto.
Una serata che rimarrà impressa per molto tempo ancora nel cuore e nella mente di tutti noi presenti.


Ci si rivede prestissimo, sempre tra queste righe.
Stay tuned and Stay Metal.

Lineup

  • Mikael Åkerfeldt – voce, chitarra
  • Fredrik Åkesson – chitarra
  • Martín Méndez – basso
  • Joakim Svalberg – tastiere, piano
  • Waltteri Väyrynen – batteria

Setlist

  1. §1
  2. Master’s Apprentices
  3. The Leper Affinity
  4. §7
  5. The Devil’s Orchard
  6. To Rid the Disease
  7. The Night and the Silent Water
  8. §3
  9. Heir Apparent
  10. Ghost of Perdition

Encore

  1. Deliverance