«Sono una spugna di dolore altrui», dice Francesca Albanese, che come tutte noi ambisce a forgiare una frase all’altezza di quella volta che Margaret Mazzantini disse «sento gracidare il dolore del mondo». I suoi intervistatori mantengono la faccia inderogabilmente contrita, ed era già chiaro prima ma diviene chiarissimo in quel momento che il guaio non è Francesca Albanese: il guaio è questo secolo, il guaio sono i podcast.
Eugene Levy è un attore canadese che è riuscito nell’ambizione di molti di noi: farsi pagare da qualche piattaforma per fare delle vacanze. “The reluctant traveller with Eugene Levy” è su Apple+, e alla quarta puntata di questa stagione c’è un inglese che gli fa fare un giro di casa sua: quell’inglese si chiama William, è il figlio d’una certa Diana Spencer, il marito d’una certa Kate Middleton.
Promuovendo il programma Levy ha dato delle interviste, e gli hanno chiesto se, visto che era lì con William, gli abbia chiesto dei bisticci con la cognata. Levy è un uomo beneducato, quindi non ha risposto come avrei fatto io «ma sei scemo?»: ha detto che non gli sembrava il caso.
Graham Norton è un irlandese, fa il più bel programma con ospiti del mondo, il “Graham Norton Show”, va in onda sulla Bbc il venerdì sera. Forse avete visto in giro per social un pezzettino dell’ultima puntata, in cui Taylor Swift mostra il brillocco di fidanzamento e Cillian Murphy fa la faccia annoiata.
Il “Graham Norton Show” è irresistibile per una combinazione di ragioni: è in inglese, quindi puoi mescolare le star locali a quelle americane senza bisogno di ammazzarle con traduzioni simultanee; gli ospiti sono intervistati tutti insieme, interagiscono, chiacchierano, commentano gli aneddoti altrui; sono tutti ubriachi (negli studi Bbc non vige il divieto di alcol come in quelli Rai).
Di recente hanno chiesto a Norton se ci sia qualche ospite che non va più da lui perché gli ha fatto una domanda scomoda, e lui ha detto che lui le domande scomode non le fa, mica è un programma d’inchiesta, mica vuole rovinare l’atmosfera. Poi ha raccontato d’un altro talk show inglese che, subito dopo l’assoluzione, ebbe ospite OJ Simpson. «Gli chiesero: sei stato tu?, lui disse: no – e la serata era finita. Cosa pensavate che vi dicesse, sono venuto qui a confessare?».
Cosa sono i podcast? Sono giornalismo o sono intrattenimento? Non ne ho idea, so che sono rigorosamente fatti da gente che non sa un cazzo di niente, qualunque sia il tema, chiunque sia l’interlocutore. «È un paese dove le competenze contano poco», sento dire nella puntata di “Tintoria” di questa settimana, una puntata in cui evidentemente ci si guarda allo specchio.
“Tintoria”, rispetto al podcast medio, ha alcune aggravanti. Intanto che i due che lo conducono sono romani. Poi che si percepiscono comici. Si sentono due pari grado di Corrado Guzzanti, mica due Gianluca Gazzoli in sessantaquattresimo.
“Tintoria” ha dei punti fissi (in analfabetese: è un format), per ognuno dei quali io vorrei essere la madre di uno dei conduttori per dar loro tutti i coppini che meritano. Il primo è che, all’inizio della puntata, uno dei due dice all’ospite che l’altro si è proprio tantissimo preparato la prima domanda, e la prima domanda è: come stai? (Funzionerebbe se poi successivamente i due avessero invece delle domande ficcanti e articolate, ma no, il livello resta per un’ora o due «come stai?»: è il podcast ideale per ospiti come Filippo Ceccarelli, che di suo tende a monologare per venticinque minuti sollevando l’intervistatore dall’incomodo di pensare).
Un altro punto fisso sono le due domande finali (le praticamente uniche domande che vengano fatte su quel palco). Una chiede del dittatore preferito. Un’altra «qual è il posto più strano in cui hai cagato» (loro dicono «cacato»: ve l’ho detto che sono romani).
Capirete che, leggendo che Francesca Albanese se n’era andata precipitosamente da non so che studio televisivo perché doveva registrare “Tintoria”, ho ritenuto mi urgesse perdere due ore per guardare la puntata, onde arrivare al momento in cui il santino della sinistra, l’eroina della controinformazione, l’esegeta del genocidio rispondeva alla curiosità sul posto più strano in cui le fosse scappata.
Perché ci era andata? Non mi interessa l’obiezione che le fanno tutti – hai detto che parlavi solo con esperti e non con comparse da talk-show, e poi vai a parlare con questi due ripetenti dell’ultimo banco – mi interessa sapere perché le sembri utile andare a dire di quella volta che ha avuto un attacco di colite in autostrada.
Perché loro l’avessero chiamata era ovvio: hanno lo stesso pubblico di “Propaganda” – solo che, in confronto a loro, Diego Bianchi è il figlio naturale di Slavoj Žižek e Camille Paglia. Giuro che non mi aspettavo che chiedessero a OJ Simpson se era stato lui: lo so che sono due per così dire comici, e non Christiane Amanpour.
Neanche pensavo potessero – due maschi, credo abbiano pure l’aggravante dell’eterosessualità – fare tana al gattamortismo albanesiano: lei dopo aver monologato per venti minuti pigola «sto parlando troppo?», e il maschio zelante «sei qui per questo»; lei simula umiltà, «non so se ho risposto alla tua domanda», e lui fesso come solo i maschi di fronte alle gattemorte: «La risposta migliore che potessi dare». Non è stato quello, a farmi impressione.
Solo nei primi minuti, Francesca Albanese racconta: che lei in realtà lavora all’estero ma spesso è qui perché le dispiace che i giovani italiani senza di lei non abbiano punti di riferimento, non essendoci più i politici seri della sua gioventù (Albanese ha cinque anni meno di me: ha fatto il liceo durante il primo governo Berlusconi, che in retrospettiva sembra in effetti il governo Churchill); che il tassista che l’ha portata lì le ha detto, sentendo che si lamentava del programma da cui se n’era andata, «la gente è co’ te»; che quella mattina, domenica, una parrucchiera aveva aperto apposta per lei, e poi non aveva voluto farsi pagare, «il mio piccolo contributo a quello che fai».
Ora, io non mi aspetto che due maschi romani leggano il sottotesto e si accorgano che la Albanese sta dicendo «pensavate che i capelli grigi fossero incolti, e invece i boccoli avrebbero dovuto svelarvi che il mio aspetto è ricercatissimo» (cosa peraltro evidente a chiunque non sia maschio etero).
Però è incantevole il modo in cui la Albanese elenca tre «tutti mi amano tutti mi stimano» con cui costruire subito, a inizio puntata, il culto della personalità di Francesca Albanese, e nessuno si metta a ridere. Ce lo vedete Raimondo Vianello che non si mette a ridere di fronte a un’ospite che seduta sulla poltroncina edifica il culto di sé stessa? Ce lo vedete Corrado Guzzanti? Ce lo vedete David Letterman? Al declino delle élite sono ormai rassegnata, ma al collasso del senso del ridicolo nei comici non credo di potermi abituare.
«Io non la volevo fa’ ’sta domanda», si dispera uno dei due quando, a una domanda generica sul terrorismo, la Albanese sbuffa «possiamo passare alla domanda sulla cacca?». Procede poi ad accudire gattamortamente il loro, parole sue, timore reverenziale. «Io sento molto il vostro rispetto, che è una cosa bella, e vorrei che la sentissero anche i giornalisti, soprattutto quelli pagati coi nostri soldi». Un po’ Mia Farrow, un po’ Gian Antonio Stella.
Procediamo poi a scoprire che la domanda sul cagare in pubblico andrebbe bene per il marito, il signor Albanese, ma lei invece «la faccio a comando». Poi racconta dell’aver avuto la cistite in Guinea Bissau, «dov’ero a fare il monitoraggio elettorale». I due tapini sembrano l’uomo medio post-2017, quello terrorizzato che qualunque mezza parola che osa dire verrà tacciata di mansplaining.
Già poco prima la Albanese ha detto «quello che io sto vivendo epitomizza quello che succede a chiunque si occupi di Palestina», e loro non hanno lì il cellulare per chiedere all’intelligenza artificiale cosa significhi «epitomizza» e annuire in maniera convincente. Il guaio è che lei ha molto più senso del palco di loro: sa che, se la platea applaude col vigore di chi sente che quell’applauso lo mette dalla parte giusta della storia, devi alzarti in piedi e sollevare il pugno, così l’applauso durerà più a lungo.
«Una bellissima risposta», dice serio uno dei due quando la Albanese risponde indovinate un po’ chi alla domanda «dittatore estero preferito». L’altro ha appena detto «scherzo» come i conduttori istituzionali imbarazzati, dopo aver fatto la battuta più blanda del mondo. Non so se dopo Francesca Albanese il mondo non conoscerà più genocidi. Sospetto però che intere generazioni dovranno impegnarsi tantissimo per far risorgere il senso del ridicolo, e non è detto che ce la facciano.