Lei ha detto: «Mi sono salvato grazie all’arte». Che cosa intende?
«Avevo toccato il fondo. Era il 1988. Non sapevo cosa fare della mia vita. Volevo parlare al mondo, ma non avevo le parole. Le mani sì, però. Le mani sapevano fare. E io ho deciso di fidarmi. Ho iniziato a modellare il gesso, poi la terracotta. Ho studiato da solo. Ho lavorato in fonderia, ho osservato, copiato, sbagliato. E poi, un giorno, tutto è esploso. Era come se dentro di me ci fosse un’intelligenza che non voleva più restare zitta».
Lei crede in Dio?
«Sì. Ci credo profondamente. Penso di essere stato guidato. Quando ho lasciato che le mani parlassero, tutto ha cominciato a fluire. Le mie opere sono nate così: non da un progetto, ma da un’urgenza. Non le ho cercate io. Sono loro che hanno trovato me».
Il pubblico, davanti alle sue opere, vede le sue figure monumentali, le valigie, le sacche, ma anche la mancanza. Che reazioni ha osservato?
«Molte persone si commuovono. Ricordo, una volta, due migranti a Marsiglia, stavano guardando la mia scultura. Hanno letto la targa, poi uno ha detto all’altro: “Questa è una brava persona”. Mi ha commosso. Le mie sculture parlano alla pelle. Non hanno bisogno di spiegazioni. E forse per questo non vengono mai vandalizzate, anche quando sono esposte all’aperto. Sono incomplete, come noi. E chi le guarda si riconosce».
Vivere e creare con l’errore richiede coraggio. È una ferita aperta, oppure è una ferita che si trasforma?
«È entrambe le cose. È ferita aperta perché un pezzo non torna mai. Ma è anche trasformazione. Perché il dolore, se restasse solo dolore, paralizzerebbe. Io ho scelto di farlo diventare materia, forma, scultura. Non per forza bellezza nel senso convenzionale, ma una bellezza che commuove, che fa pensare. Quando creo, non cerco di mascherare l’errore: lo celebro, lo metto in valore. È da lì che nascono le mie opere più forti».
Lei ha detto che non crede in un’arte politica di denuncia diretta. Allora quale è il ruolo dell’artista oggi, secondo lei, in un mondo segnato da migrazioni, guerre, identità frammentate?
«Credo che l’arte debba testimoniare. Non necessariamente urlare. Testimoniare con la presenza. Con le forme, con il vuoto che resta, con la mancanza visibile. L’arte è un luogo sacro della memoria, dell’appartenenza, dell’umano che non si rende strumento. E, nella Giornata del Migrante e Rifugiato, penso che queste mostre — queste figure — possano essere porte aperte al dialogo: per vedere l’altro con empatia, per sentire che il dolore dell’altro può risuonare in noi, per riconoscere che tutti portiamo una valigia — materiale o intima — e in quella valigia c’è chi siamo».
Qual è oggi, guardando il suo percorso, il suo dialogo interiore con quel passato di sradicamento?
«È un dialogo permanente. Non ho ricette per guarire, né per arrendermi. Vivo nel presente con una coscienza del vuoto che ho, ma che non temo. Lo uso come energia. Lo vivo come lente di ingrandimento: mi permette di vedere le parti di me che funzionano, che costruiscono, che resistono. E quando qualcuno osserva una mia scultura e riconosce il vuoto, riconosce la perdita. ma anche la speranza: capisco che arte e vita sono intrecciate. Io creo per questo: per condividere quel percorso, perché nessuno resti solo con le sue valigie invisibili».
Oggi la sua valigia si è alleggerita?
«Un po’ sì. Forse perché ora riesco a raccontare. A tirare fuori. A dare conforto. E quando sento che le mie opere parlano al cuore di qualcuno, quel vuoto si riempie — almeno per un momento — di senso».