L’Italia è terra, fertile, di curiose contraddizioni. Nei giorni scorsi il governo ha varato la nuova disciplina del cosiddetto Tuf, il Testo unico della finanza, meritoria opera di semplificazione della giungla normativa del settore. Contiene regole importanti destinate a cambiare la governance delle aziende quotate e, in generale, di tutto l’universo delle società per azioni, anche se oggi c’è una corsa a fare delle Srl a responsabilità limitata perché non si sa mai.
Ebbene, al di là delle tante innovazioni che riassumono lo spirito del tempo (ovvero comandano di più i grandi azionisti, meno i manager a dispetto anche di ciò che avviene sui mercati internazionali) c’è da segnalare la degradazione dei piccoli azionisti. Fastidiosi. Meglio non averli in assemblea, a meno che non abbiamo almeno lo 0,1 per cento delle azioni che non è poi poco in grandi gruppi.
Un popolo di investitori, trattato come la plebe finanziaria, definitivamente consegnato a quello che un tempo era il «parco buoi». Tradotto: investite, ma non rompete le scatole a chi comanda. Soltanto nel giugno scorso è entrata in vigore, fortemente voluta dalla Cisl, grande alleata del governo Meloni, la legge sulla partecipazione dei lavoratori al capitale soprattutto delle piccole e medie imprese. Un provvedimento avversato dalla Cgil e che ha imbarazzato il Pd. La legge contrasta – nella filosofia di fondo – con il fresco Tuf appena approvato dall’esecutivo. Al lavoratore che investe nelle azioni dell’impresa in cui lavora si vuole togliere il diritto di parola, nelle forme previste, in assemblea? Assolutamente no. Perché farlo azionista è il modo per premiarlo e trattenerlo. La contraddizione con il Tuf è evidente, il dibattito inesistente.
9 ottobre 2025
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