«È un’emergenza sanitaria, un’emergenza igienica, un’emergenza di tutti i tipi»: il prezzo più alto, a Gaza, viene pagato da donne, bambine e ragazze. All’indomani delle manifestazioni che hanno riempito le piazze italiane per esprimere solidarietà al popolo palestinese, Raffaela Baiocchi – ginecologa e coordinatrice medica di Emergency a Gaza – racconta ad Alley Oop come stanno le donne nella Striscia e quali emergenze stanno affrontando.
Essere una dottoressa a Gaza significa fare tanto con il poco che si ha a disposizione: è questo uno degli aspetti più cruciali della quotidianità. E, soprattutto per quel che riguarda la salute delle donne, a Gaza l’emergenza non si arresta: come non si ferma la resistenza della popolazione che, spiega Baiocchi: «Avviene cercando e difendendo il più possibile una pseudo normalità nella vita quotidiana».
23mila donne prive di cure
«L’offensiva israeliana a Gaza costringe le donne a partorire per strada, senza ospedali, medici o acqua pulita» aveva già sottolineato Stephane Dujarric, il portavoce delle Nazioni Unite, citando le stime del Fondo delle Nazioni Unite (Unfpa): sono circa 23mila le donne prive di cure a Gaza e 15mila i bambini che nascono ogni settimana senza assistenza medica. La ginecologa Baiocchi è tornata in Italia, dopo aver trascorso diversi mesi nella clinica gestita da Emergency nell’area di Khan Younis: «Sono arrivata nella striscia di Gaza, la prima volta, a gennaio 2025: quando siamo riusciti finalmente a entrare nella nostra clinica costruita da zero. Così ho visto l’evolversi e il deteriorarsi della situazione».
Il cessate il fuoco dello scorso marzo, «con una tregua sempre molto labile» sottolinea Baiocchi, aveva in un primo momento consentito alla popolazione maggiore tranquillità. «Erano riapparse carne, uova e verdure – ricorda la dottoressa – Nonostante, per reperire gli aiuti, la popolazione fosse costretta a muoversi in una trappola per topi con il rischio di rimanere uccisi nel tentativo di recuperare cibo». L’intermittenza degli aiuti, a cui ha fatto seguito il blocco, ha fatto precipitare le già precarie condizioni: «Abbiamo visto peggiorare tutti gli effetti della malnutrizione, l’aumento di nuove lesioni e di ferite da arma da fuoco: tutto ciò accade sulle rotte per la distribuzione degli aiuti. Le strutture di pronto soccorso hanno continuato a riempirsi».
«La fame colpisce diversamente»
«La fame non è uguale per tutti e colpisce le persone diversamente, con tempi differenti: per questo abbiamo avviato anche un programma di malnutrizione per le donne» spiega Baiocchi. Come riporta l’Integrated Food Security Phase Classification, l’autorità umanitaria globale sulle crisi della fame, più di 70.000 bambini sotto i cinque anni e 17.000 donne incinte o che allattano soffrono di malnutrizione acuta.
«Non abbiamo a disposizione il cibo terapeutico per le donne malnutrite in gravidanza e allattamento: quando riusciamo ad averlo, è pochissimo – spiega la dottoressa – Per questo motivo, siamo costretti a usare degli alimenti di “serie B”, chiamati “biscotti ad alta energia”: ci hanno aiutato ma, già nei primi quindici giorni di emergenza, non ne avevamo a sufficienza rispetto alle necessità: andava via uno scatolone a settimana».
Davanti all’emergenza, lo sforzo congiunto è l’unica rotta da seguire per aiutare più donne possibili: «Prendevamo i contatti di tutte le donne che si rivolgevano a noi e, quando mancavamo di ciò che serviva per aiutarle e curarle, abbiamo cercato di coordinarci con l’Unicef: ci siamo attivati con le altre istituzioni internazionali che lavorano dentro la Striscia. Ovviamente, siamo tutti in rete: sono arrivate nella nostra clinica molte donne da altri centri, con disturbi e problematiche diverse dalla malnutrizione».
Contraccezione
Baiocchi si occupa di salute femminile e quindi anche di contraccezione. A riguardo, la sua testimonianza racconta quello che è un altro diritto negato a Gaza: l’intimità. «Sono tante le donne che cercano e chiedono la contraccezione: generalmente, in un Paese musulmano, rappresenta la parte minore del lavoro – spiega la ginecologa – Oggi, invece, non è così: le donne richiedono di più la contraccezione perché, come ci dicono, non se la sentono di portare avanti una gravidanza in una situazione del genere».
A pesare non è solo la preoccupazione rispetto al futuro, ma le condizioni del presente: «Durante una delle nostre riunioni settimanali, una collega palestinese mi ha fatto notare come, a mancare, sia proprio la possibilità di avere intimità: la maggioranza della popolazione vive in condizioni assolutamente precarie e di sovraffollamento» sottolinea Baiocchi, che aggiunge: «Non c’è più neanche la situazione per poter avere una gravidanza, per stare insieme, per consolarsi. Nelle tende si vive tutti insieme, con spazi e modalità che differiscono rispetto alle disponibilità economiche della famiglia che perde la casa. Se sei benestante riesci a comprare più tende e ricreare delle stanze. Ma questa è una possibilità che è alla portata di pochi».
Mancano assorbenti e acqua
Secondo i dati delle Nazioni Unite, ci sono 700mila donne e ragazze a Gaza che hanno le mestruazioni ma non hanno un accesso adeguato a prodotti igienici di base come assorbenti, carta igienica, acqua corrente e servizi igienici. «Anche negli aiuti arrivati tramite le rotte commerciali non c’era tutto – riferisce Baiocchi – I prodotti per l’igiene personale, “un lusso”, non erano in quantità e in varietà tale da poter garantire alle persone la cura personale».
In base alle stime di UN Women, ogni mese sarebbero necessari circa 10 milioni di assorbenti igienici usa e getta o 4 milioni di assorbenti riutilizzabili per soddisfare le esigenze delle donne e ragazze a Gaza: alcune di loro hanno testimoniato di essere state costrette a tagliare pezzi di stoffa dalla tende per usarle come sostituti degli assorbenti igienici, andando incontro al rischio di contrarre infezioni. «Le agenzie delle Nazioni Unite distribuivano quelli che sono chiamati “kit della dignità”, in cui ci sono anche degli assorbenti. Ma sicuramente non in misura funzionale ai bisogni» spiega Baiocchi, riferendo che ogni condizione cambia in base alla situazione del momento: «Il problema della salute mestruale diventa ancora più grave quando manca l’acqua per lavarsi. Non essendoci l’acqua corrente, ci si lava raccogliendo l’acqua del mare. Nell’area centro-meridionale, vicino Deir al-Balah, uno degli stabilimenti che desalinizzava l’acqua rendendola potabile è tornato a funzionare h24, con la corrente elettrica, dalla metà di agosto. Prima, con il blocco della corrente elettrica, poteva lavorare solo con i pannelli solari. Quindi, con una minima quantità di acqua, le donne devono bere, cucinare – se riescono – e, solo poi, cambiarsi».
Fare rete, le donne aiutano le donne
«Non abbiamo portato un modello ma abbiamo cercato di porci in ascolto delle persone e della cultura del posto». Come riferisce Baiocchi, lavorare a Gaza e nelle zone di guerra significa mettersi a disposizione delle necessità decostruendo il privilegio dello sguardo occidentale e prestando ascolto: «Una cosa che mi ha colpito, ad esempio, è la richiesta da parte delle donne di avere sempre, oltre la presenza dell’ostetrica, la presenza di una dottoressa o un dottore. Nonostante la nostra idea fosse di affidare la maggior parte delle attività all’ostetrica – perché la gravidanza non è una malattia che richiede l’intervento medico, l’ostetrica può seguirla come richiede – abbiamo scelto di andare incontro alle esigenze: l’obiettivo comune è mettere le donne in una situazione di massimo conforto».
In questa direzione si è mossa anche la scelta di coinvolgere nel team medico soprattutto le donne: «Lo abbiamo fatto per avere equità di genere nel nostro personale. E anche perché nell’area dove operiamo, più rurale e conservatrice, abbiamo pensato potesse essere più confortevole per le donne avere altre donne con cui confrontarsi».
Ricreare la normalità, negli accampamenti le donne creano spazi per stare insieme
«C’è una cosa che non immaginiamo ma impariamo quando vivi la guerra: la vita va avanti. Se schivi quella bomba o rimedi a quella situazione abitativa disastrosa, quando ti sei reinsediato, in qualche modo, la vita riesce a riprendersi una sua normalità»: nella crisi, la vita resiste. Baiocchi lo racconta e riferisce che, anche le ragazze, nel loro piccolo, difendono la loro normalità: «C’è chi veniva da noi per procedere con i controlli di routine. Chi, invece, per curare l’acne: questa cosa l’ho trovata bellissima».
La vita, a suo modo, resiste: «Lavoriamo con un’associazione palestinese che si chiama Culture and Free Thought Association (Cfta), cioè l’associazione per la cultura e il pensiero libero: ha iniziato le sue attività per proteggere e aiutare le donne vittime di violenza. Mentre noi gestiamo la medicina di base, loro si occupano di tutta la parte sociosanitaria».
La Cfta, come si legge sul sito dell’associazione, è nata dalle discussioni tra cinque attiviste palestinesi (e anche oggi il cda è quasi tutto al femminile) nel dicembre 1987, durante il terzo anno della prima Intifada. Fondata successivamente nel 1991, come organizzazione non governativa indipendente per lo sviluppo, si occupa di curare la salute delle donne: «Presupposto fondamentale del nostro approccio è che la salute derivi dall’armonia del benessere fisico, psicologico e spirituale – sottolinea Cfta – La salute e il benessere della donna non si limitano al suo ruolo “riproduttivo” di moglie e madre. Il Cfta si impegna piuttosto nella promozione della salute femminile durante tutto il ciclo di vita, dall’infanzia all’adolescenza, fino alla menopausa e oltre».
Un’armonia “olistica” che difendono in ogni situazione: «Ad agosto sono andata nel loro centro ad al-Mawasi e mi hanno fatta entrare nei meandri degli ambulatori, dove gli uomini non sono ammessi – racconta Baiocchi – In un dedalo di tende, tutte nel comprensorio della clinica, sono riuscite a creare una piccola corte interna con del prato finto trovato nei magazzini. Da qui si aprono spazi dedicati solo alle donne: in alcune tende le madri allattano, in altre parlano delle violenze subite e si confrontano». Nel fare rete, le donne creano spazi: «A un certo punto ho sentito anche della musica arrivare da una tenda: le ragazze stavano facendo aerobica» ricorda la dottoressa, concludendo: «A Gaza, con le unghie e con i denti, le donne tentano di creare per la comunità una pseudo normalità. Così, anche negli accampamenti, ci sono queste oasi dove le donne si riprendono i loro spazi».
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