Ethan Coen, uno dei due fratelli Coen, ha girato due film con storie di crimini negli ultimi due anni; Paul Thomas Anderson è ora nei cinema con un film su fuorilegge, attivismo e rivoluzione; Spike Lee ha da poco fatto un film su un sequestro; a fine agosto è uscito l’ultimo film di Darren Aronofsky su un ragazzo coinvolto in un intreccio di corruzione e crimine; e anche Kelly Reichardt, autrice da festival che mai aveva fatto nulla del genere, ha girato un film su un ladro, in uscita questo mese.
Da più di un decennio le storie criminali sono tornate a essere tra le più raccontate, e da poco sono arrivate anche ai grandi autori. I film con gangster o polizieschi ci sono sempre stati, ma questi sono film da festival: produzioni raffinate e ricercate, con grandi attori e soluzioni audaci. Sono sia noir di provincia con aspirazioni intellettuali come Love Lies Bleeding, uscito più di un anno fa con Kristen Stewart, sia thriller in cui qualcuno è costretto a diventare un criminale come Operazione Vendetta, con Rami Malek. Ma soprattutto sono film difficili da classificare, come I crimini di Emily, con Aubrey Plaza, in cui la protagonista è portata a diventare una criminale per la maniera in cui il mondo del lavoro onesto sembra respingerla.
È un sottogenere di cui per tanti anni Michael Mann è stato l’esponente principale, a partire dalla serie Miami Vice, antesignana del genere criminale-esistenzialista, e poi con film come Heat – La sfida, Collateral, Manhunter e via dicendo. Quello che li caratterizza è che ladri e gangster non fanno quello che ci aspettiamo e le loro azioni sono usate per parlare anche di questioni più elevate.
Questa concentrazione di film simili per tono e ambizioni non sorprende: spesso le produzioni cinematografiche si copiano a vicenda. Un po’ è dovuto ai classici meccanismi di mercato, per cui tutti producono ciò che è più richiesto dal pubblico, e un po’ viene dallo spionaggio industriale. Le società di produzione americane hanno sede tutte a Hollywood, i loro dipendenti si conoscono e mangiano negli stessi posti, quindi sono sempre al corrente le une di ciò che fanno le altre. Quando arriva la notizia che uno o due attori o registi stimati e di prestigio stanno lavorando a qualcosa che sembra importante, gli altri si adeguano immaginando che inserirsi nel medesimo filone porterà un beneficio.
Un caso abbastanza eclatante fu quello di Joker, il film di Todd Phillips con Joaquin Phoenix: era nato come un film originale, non legato ai fumetti, ma fu poi adattato al personaggio di Batman per convenienza. In quel caso non c’era da fare grande spionaggio, era evidente il richiamo dei film tratti da fumetti, e quindi per fare il suo film con un budget più alto e maggior appoggio dalla Warner, Phillips lo ripensò in quel modo, cambiando città e nome al personaggio ma sostanzialmente mantenendo la propria storia.
Il fatto che Paul Thomas Anderson abbia scelto una storia criminale per il suo film più costoso, Una battaglia dopo l’altra, con Leonardo DiCaprio, forse è l’esempio più clamoroso di quest’ultima tendenza. Alla stessa maniera molti dei film citati usano i criminali non tanto per divertirsi con lo scontro tra forze dell’ordine e fuorilegge, ma anche per mostrare i malfunzionamenti della società. Lo fa Una scomoda circostanza, l’ultimo film di Aronofsky, in cui un ragazzo braccato dalla mafia russa per un errore si rivolge (inutilmente) alla polizia. E lo farà Roofman di Derek Cianfrance, con Channing Tatum, storia di un ladro che sfugge alla legge per anni.
Se si dovesse individuare un inizio di questa tendenza sarebbe probabilmente la prima stagione di True Detective, che più di dieci anni fa fu uno dei primi racconti crime d’autore moderni a trovare un successo così ampio da influenzare le produzioni successive. Da lì in poi, molto lentamente, il genere crime d’autore è cresciuto così tanto che sono tornate anche le sue versioni da salotto, come gli adattamenti da Agatha Christie di Kenneth Branagh (Assassinio sul Nilo o Assassinio sull’Orient Express), e i film non tratti dai suoi romanzi ma che gli somigliano in tutto e per tutto, come la serie Knives Out con Daniel Craig, di cui uscirà un terzo film a novembre. Anche qui il successo di versioni del classico film sul crimine più patinate e d’autore ha fatto sì che arrivassero film come Omicidio nel West End o Il club dei delitti del giovedì (di Netflix).
In Italia i film criminali sono tornati in auge da almeno vent’anni, da quando cioè Michele Placido girò Romanzo criminale, da cui poi fu tratta una serie tv che rese possibile immaginare Gomorra (il film ma soprattutto la serie) e via dicendo. Qui il cinema di serie B propriamente detto, cioè quello più interessato all’intreccio e all’azione piuttosto che ai significati reconditi, non esiste più, quindi i film criminali sono sempre d’autore, ma sono comunque aumentati negli ultimi anni.
Due dei registi e sceneggiatori più interessanti che hanno esordito recentemente, i fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, lo hanno fatto con La terra dell’abbastanza (presentato al festival di Berlino), e poi, l’anno scorso, hanno creato una serie tv unica per l’Italia: Dostoevskij, con Filippo Timi. È la storia di un detective derelitto con una situazione familiare drammatica, che indaga crimini in un contesto che potrebbe essere definito solo come “marcio”. Questa serie fa esattamente quello che caratterizza i film più sofisticati: invece di copiare e riproporre situazioni comuni e note, inventa un’ambientazione e quindi un tono mai visti prima.
E anche lo spin-off per il cinema della serie tv Mare fuori, intitolato Io sono Rosa Ricci, ha preso una piega più sofisticata rispetto alla serie, che invece non ha pretese intellettuali. È stato affidato a Lyda Patitucci, che aveva esordito con un altro film criminale (Come pecore in mezzo ai lupi), e per toni e svolgimenti ha una patina più curata, vicina a Gomorra più che a Mare fuori, cosa che di fatto lo inserisce in questa tendenza.