Lo storico agente toscano ha scritto un libro di memorie sui suoi tantissimi anni da procuratore: “Iniziai lavorando tre mesi gratis nello studio di Branchini. Nel mercato l’incoerenza è il miglior modo per sopravvivere”
Opinionista
9 ottobre 2025 (modifica alle 17:47) – MILANO
Un tempo allo stadio si andava presto. I bambini ricordano una mano – che sembrava enorme: quella del padre. Rasserenati da quella mano aspettavano: che si aprissero i cancelli, e con quella provvidenziale mano navigare insieme alla fiumana per occupare il grande spazio dentro, al di là di quell’ellisse che sembrava l’orbita di tutto il mondo che contava. Quella mano restava mentre goccia a goccia e poi dilagando lo stadio si riempiva. Padre e figlio diventavano parte di quel senso comunitario così forte, acuto, indivisibile. Il calcio è qualcosa di più radicato nell’immaginario di una tenace e pura passione: è un battesimo. Ti aspetta come un cognome o una casa, ti cresce con il nutrimento della fantasia, del sogno. Il poeta scrisse: “Si è tifosi della propria squadra perché si è tifosi della propria vita, di sé stessi, di quello che si è stati, di quello che si spera di continuare a essere”. Dunque il sogno, quella mano, il tifo e un battesimo ineludibile sono i fili esposti e visibili (niente trucchi) del libro di Carlo Pallavicino, che è un mio amico e bisogna scriverlo perché è informazione onesta e decisiva. Si sfogliano le pagine di un amico per cercare conferma di quel sentimento, per capire qualcosa di sfuggente e sfuggito. Per vedere il piacere di leggere sormontare poco alla volta il dovere di farlo.
È successo, in fretta, è bastata la Luisona (la pasta del Bar Sport di Benni, che radunava, calamitava e riordinava la sconclusionata vita della combriccola). O la madeleine, il biscottino di una più elevata e infinita ricerca: per Carlo fu il tabellone del Totocalcio al Chiosco degli Sportivi. Un resoconto romantico e severo, in divenire per un’ora e mezza e infine sentenzioso. Risultati e classifica: tutto lì, verità scolpita per una settimana intera. Carlo – bambino – se ne procurò uno identico (Carlo in tutte le stagioni della vita e del libro ottiene cose che sembrano proibite, varca stanze che sembrano inaccessibili, conosce e convince persone che sembrano inarrivabili. Con la forza dei desideri, è un tipo che fa accadere cose – a me per esempio vent’anni fa convinse a fare una trasmissione radiofonica che non aveva alcun senso, discorsi senza terraferma, durò poco eppure ci siamo divertiti). Quel tabellone lo appese in bagno, un luogo che vogliamo immaginare intimo e invece in quella casa, palazzo, fabbrica dove Carlo è cresciuto (agiato, e ci scherza su) era una specie di corridoio che collegava il mondo privato al mondo del lavoro e degli altri, così da avere un po’ di pubblico. Ecco, l’amicizia e la confidenza ti fregano e mi sono dimenticato di presentarlo, convinto che tutti sappiano chi sia (per molti è così): Carlo Pallavicino è fiorentino, ha un’età indefinita fra la fanciullezza e la vecchiaia, che si è un po’ imposto diventando – per scelta – un ex. Ex giornalista, ex imprenditore, ex editore e soprattutto ex procuratore, socio di Giovanni Branchini. Il blocco titolo insiste su questa parte: “Ci chiamavano sciacalli. La vita di un giovane procuratore nella giungla del calciomercato”, edito da Baldini+Castoldi.
Sciacallo, allora: qual è il consiglio migliore che hai ricevuto?
“Da mamma, dopo un suo melodramma davanti ai professori per evitarmi una bocciatura che sembrava inevitabile. Le chiesi come aveva fatto: se vuoi davvero qualcosa fai lavorare il cervello. Tutto diventa possibile. Per l’impossibile, ingoia il pudore e rompi i coglioni all’infinito”.
Chiarissimo. D’altra parte volevi fare il giornalista, lo stavi facendo, hai cominciato da minorenne, rompere le scatole è missione.
“In mezzo ai giocatori, i miei idoli. Mi chiesero di intervistare Dino Pagliari, il giocatore politicamente impegnato, detto Jesus Christ per i riccioli biondi. Lo attesi, mi regalò un’arancia, se ne andò. Passò Roberto Galbiati e intervistai lui. Quello fu il primo pezzo per il Brivido Sportivo”.
“L’arrivo di Vierchowod alla Fiorentina, non mi credettero fino in fondo, tanto che titolarono: ‘Ci mancherebbe che giungesse anche Vierchowod!!!’”
Con tre punti esclamativi?
“Provai a ribellarmi col direttore, non li tolse”.
Tuo padre muore improvvisamente nel giorno del tuo ventunesimo compleanno e spezza in due la tua esistenza, stravolge le priorità. O semplicemente le mette in fila nell’ordine giusto. Hai mai pensato a come sarebbe andata altrimenti?
“Pochi giorni prima dell’incidente stradale gli dissi che per rispetto al suo lavoro e alla sua età (la mia stessa di oggi) avrei accettato di fare un po’ di esperienza nel suo ufficio di rappresentanze siderurgiche. In realtà avrebbe adorato che lavorassi nel calcio, fosse anche come procuratore perché amava tutto quello che facevo. Quando scrivevo per Tuttosport e mi bocciavano negli esami universitari mi chiedeva: chi hai intervistato oggi? Vivevo il giornalismo in modo totalizzate ed esageravo, rischiavo con poca sensibilità, trascinato dalla voglia di affermarmi. Forse sì, la sua scomparsa ha messo tutto in fila. Mi ha responsabilizzato, stavo deragliando”.
Colpisce nel libro – un racconto di formazione con l’angolazione di una biografia di una nazione, quella cresciuta con la stella polare a forma di pallone – la tua perenne irrequietudine. Esaltazioni, illusioni e insoddisfazioni che bruciano insieme, lasciando sempre gusti contrastanti in ogni avventura. È un fuoco che origina da questa assenza? Da non poter mostrare il tuo successo a tuo padre? Alla mancanza di questo fatale e stabilito riscontro? Dalla lusinga che non hai potuto ascoltare?
“Non credo. Penso che dipenda dal bisogno di smarcarsi dal perenne senso di inadeguatezza e dalla paura di non farcela. Il libro vorrebbe raccontare proprio questo: ogni giorno ero convinto che fosse quello definitivo, irrimediabile, in cui mi avrebbero scoperto e mi avrebbero cacciato dal tempio”.
Sono i sintomi di un amore profondo, paure comprese.
“Mi rinfrancavo grazie alla ingiustificata supponenza nell’osservare e giudicare le qualità di alcuni interlocutori”. Come entri nel tempio?
“Leggendo un breve articolo su un promoter di boxe che dopo un lutto sul ring lasciava il pugilato per occuparsi delle procure dei calciatori. Al solito, cominciai a fantasticare, e volli conoscere quell’uomo. Era Giovanni Branchini, cominciò così, con tre mesi di lavoro gratis nel suo ufficio milanese. Ci sono rimasto trent’anni e dopo poche settimane ero appresso a Careca che doveva cambiare lo sponsor degli scarpini, passare da Adidas a Mizuno, con un tizio giapponese venuto apposta all’aeroporto di Bergamo per adattare le nuove scarpe ai suoi piedi. Il lunedì Careca mi aspettava in un hotel milanese (il giorno prima il Milan di Sacchi aveva dominato l’incontro più importante). Arrivavo in macchina da Firenze, ero in ritardo, lo cercai da un telefono a gettoni di un Autogrill, con la folla attorno alla mia cornetta, radunata nel sentire la mia richiesta alla signorina della reception: ‘Può passarmi Careca?’”.
“Arrivai all’hotel, Careca imburrava il pane per la colazione, gesti lenti, assaporava. Il ritardo – sommava il suo al mio – non gli procurava nessuna ansia. Mi porse una busta con gli scarpini che indossava: portali ai giapponesi, che imparino a farli uguali”.
Cos’è un procuratore?
“Quello: è la scarpa giusta per il piede del calciatore”.
Cos’è il tempo in questo spaccato? Come gira l’orologio?
“Non esiste, si dilata e si annulla, non è mai regolare. Moggi ci dava appuntamenti e si presentava il giorno dopo, verso sera. Lotito ti lasciava per ore in attesa di presentarsi e travolgerti con i suoi monologhi. Provavi a farlo notare, presidente siamo qui da ore…balbettando un vago malumore, sperando di metterti nella posizione di vantaggio di chi aveva sprecato un giorno nell’attesa così da meritare qualcosa. Ti rispondeva: ‘Che cazzo vuoi, ero in Parlamento a lavorare per il Paese!!!’”
Altri tre punti esclamativi.
“Anche quattro. Come i cellulari che teneva davanti, tutti accessi, tutti aperti. Gestiva quattro conversazioni contemporanee, come uno scacchista impegnato in una simultanea. E intanto parlava con noi di contratti. Capitava che si facesse ripetere qualche frase”.
Credo che sciacalli sia una definizione che a lui – di voi – possa piacere.
“Quando – in tribunale e grazie all’avvocato Grassani – liberammo Pandev, il miglior calciatore della Lazio di allora, costretto ad allenarsi da solo senza mai vedere il campo per mesi, fu un giorno bellissimo”.
Quando siete diventati sciacalli?
“Il 15 dicembre del 1995. Jean Marc Bosman era ormai un calciatore in disarmo che viveva di sussidi statali ma quel giorno vinse una battaglia iniziata tanti anni prima, quando alla scadenza del contratto gli fu impedito di passare dal Club Liegi al Dunkerque. La corte di giustizia dell’Unione europea decise che un calciatore a fine contratto poteva liberarsi senza alcun indennizzo – che fu 15 anni prima il passo iniziale per emancipare i calciatori dalle società, che potevano decidere tutta la loro vita professionale. Se con lo svincolo indennizzato nacquero i procuratori, con la sentenza Bosman arrivarono gli sciacalli. Di colpo eravamo epicentro del mercato, si ruppero i patti fra gruppi di procuratori e direttori sportivi. Ognuno per sé, soldi per tutti. E i presidenti furibondi che consideravano le nuove trattative per rinnovi a cifre raddoppiate come ricatti irricevibili. Erano definitivamente cambiati i rapporti di forza, gli umori, i modi. Alcuni procuratori si fecero mediatori in quello spazio infinito di ricerca di giocatori a fine contratto da piazzare alle società. Allora nacquero tratti selvaggi e zone grigie della professione che ancora resistono”.
Torniamo a sognare: l’uomo più romantico che hai conosciuto nel tuo lavoro?
“Senz’altro Walter Sabatini. So di essere scontato ma d’altra parte essendo un compaesano di Antognoni parte avvantaggiato. Mi è dispiaciuto aver avuto poche occasioni per lavorare con lui. La sua qualità migliore è di instaurare il rapporto in modo intenso, esclusivo al punto di farti sentire come il prescelto (ma immagino che questo accada anche con gli altri). Donarti quel privilegio era il segreto anche di Gianni Agnelli. E anche di mia nonna”.
“Aldo Spinelli. Ma la lista è infinita e investe una grande quantità dei presidenti che ho conosciuto. Immagino che quando si ritrovano in Lega se ne compiacciano pure tra di loro”.
“Domanda complicatissima che suscita mille ragionamenti. L’incoerenza ha contraddistinto i rapporti con i tanti personaggi che ho conosciuto, dai presidenti in primis, direttori sportivi, ma anche allenatori e innumerevoli giocatori. Nel calciomercato si coesiste con l’incoerenza perché è il modo più semplice per sopravvivere alla sua precarietà di questo, forse per la troppa precarietà di questo mondo”.
Anche nel libro (credo nella tua storia) combattono pulsioni incoerenti: sapori antichi e nostalgie, che corteggi a ogni pagina, insieme a esigenze moderne, da internet a qualsiasi innovazione che vuoi subito trasformare in opportunità.
“Siamo assolutamente creature incoerenti. Farei prima a elencare chi invece mi ha colpito per coerenza”.
“Donadoni, Pandev, Lucarelli, Pioli e Lazaroni. Un altro: Benny Carbone, a parte 24 ore della sua vita, forse le peggiori della mia carriera, ancora sanguino e mi agito al pensiero ormai lontano”.
Chi leggerà, saprà. Hai detto: è un libro sulla persistente inadeguatezza. Il giorno in cui lo sei stato più di altri?
“Pochi minuti: la camminata verso la stanza del Niguarda dove avrei rivisto Borgonovo, ormai vinto dalla Sla. L’ultima volta che lo avevo incontrato era un uomo sano, felice, empatico, spensierato”
Il giorno in cui tutto ti è parso giusto?
“Pochi mesi dopo, la sera in cui riportai Borgonovo al Franchi. Organizzai quella partita, quel saluto. Con Baggio, e i campioni di Fiorentina e Milan. Al centro del campo, Gullit si abbasso verso Stefano, per salutarlo: scoppiò in lacrime e noi con lui, ci liberammo dell’emozione e dell’angoscia”.
Adesso? Hai rimpianti? Ti manca il calcio?
“No non mi manca anche se mi fa un forte effetto, potente e diseguale. Per oltre mezzo secolo la vita non è stata suddivisa in anni ma in stagioni esattamente come scriveva Nick Hornby in Febbre a 90. È scomparsa la passione tutta insieme e non so perché”.
Hai consumato tutto te stesso, hai vissuto tutti i tuoi sogni?
“Me n’è rimasto uno, se proprio non un sogno, un bisogno: mi piacerebbe restituire qualcosa di ciò che ho avuto, aiutare i ragazzi che arrivano da paesi lontani e quelli che hanno difficoltà aiutandoli ad integrarsi correndo dietro a un pallone. Mi sono messo a disposizione di un paio di comuni e altrettanti sindaci per ora senza successo. ma non demordo”.
Per l’impossibile rompere i coglioni, all’infinito.
Carlo, la Fiorentina vincerà mai il terzo scudetto?
“Sì lo vincerà. Non so come e non so quando ma lo vincerà col giglio vero degli anni Settanta sulla maglia viola scuro e i pantaloncini neri. E potrò festeggiare con l’invasione di campo che mio padre (ero con lui in tribuna contro il Varese, maggio 1969) non mi lasciò fare. Forse perché avevo sei anni”.
Siamo tornati a quella mano, lasciata troppo presto. Questo libro (si legge come si beve un bicchier d’acqua quando si è assetati) è il viaggio incantato, ingenuo, trasformista (il doppiogioco è l’arte di quel lavoro), impudente e a volte sbagliato di un appassionato di calcio, dentro il suo mondo sognato. Ci sono vittorie e sconfitte, certo. Illusioni e frustrazioni, brindisi e ferite, generosità e vigliaccherie. Essendo Carlo dotato di autoironia, brutte figure e litigi abbondano. Altre cose, dal libro. I campioni, Ronaldo, Rui Costa e centro altri, conosciuti nella confidenza del privato, spesso a tavola. Lucarelli non ha solo rinunciato al miliardo, ne ha persi almeno un altro paio per amore (di una città), Moggi non lo saluta più, Baggio ha tirato “quel” rigore. Carlo smise con il mestiere in una cena solitaria, mentre immaginava i suoi giocatori come le ostriche nel piatto che aveva davanti, in una brasserie de Paris. E bevendo champagne, in un riflusso di nobiltà. Nessuno lo ha cacciato dal tempio, è uscito da solo.
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