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Uno spettro s’aggira nei meandri della musica italiana: quelle delle cover. Chiunque ne registra una, sono dappertutto, non più solo ai talent come X Factor e Amici, dove servivano da biglietto da visita per emergenti con un repertorio personale ancora fragile. Alcune, tra le ultime, hanno già scatenato faide impensabili, come quella tra Gianluca Grignani (autore e cantante originale) e Laura Pausini (qui coverista) per La mia storia tra le dita, al centro di una vicenda di autorizzazioni che forse ci sono state e forse no, chissà, nonché anteprima di Io canto 2, nuovo album d’interpretazioni di pezzi altrui della stessa Pausini previsto per l’autunno, a quasi vent’anni dal successo di Io canto (2006). Altre non hanno bisogno di polemiche, come quelle appena uscite di Buon compleanno Elvis!, l’album che nel 1995 cambiò la carriera di Ligabue, di cui il cantautore emiliano, per festeggiarne il trentennale, ha “autorizzato” (per davvero) una versione di cover, brano per brano, con ospiti vari.
Questione di gusto
Insomma, ce n’è di ogni tipo. Eppure… boh. Si potrebbe fare di più, ascoltando i pezzi. Per carità, il mercato è quello che è: agli artisti oggi si chiede una presenza costante, anche in mancanza di idee, per cui la cover a volte è una soluzione da minimo sforzo e massimo risultato – esattamente come gli infiniti anniversari celebrati con tour, remasted, insomma le cosiddette Uova di Colombo. In più, le cover restano un grande modo, da parte degli autori originali, che quindi si concedono volentieri, per valorizzare il proprio catalogo: ora che tutta la musica è disponibile su Spotify, avere grandi canzoni dalla proprio parte è un asset da far rendere e delle reinterpretazioni sono perfette per tenere acceso il motore. Tradotto: da qui in avanti ne ascolteremo tante altre. E non è per forza un male, eh, basti pensare a ciò che i Måneskin sono riusciti a costruire con Beggin o la stessa Amandoti, che a sua volta Gianna Nannini aveva preso dai CCCP nel 1995. Ma erano altri tempi, oggi invece la crisi di sovrapproduzione si rivede anche qui.
Pausini è una grande interprete, il primo Io canto fu un colpaccio, specie considerando ciò che tirò fuori dalla title-track, brano in realtà minore della discografia di Riccardo Cocciante. Serve sempre un guizzo. Ma stavolta, al di là delle polemiche, la sua La mia storia tra le dita non funziona dal principio: l’originale era una ballata pop con un piglio svogliato e maledetto, una sorta di Va bene va bene così di Vasco Rossi meno scorretta; questa somiglia più che altro a un power-pop senza identità, intenso nella produzione e in generale nell’enfasi (pure troppa), ma per questo innocente – e senz’anima – nella resa finale. Un bel karaoke, ecco, che però non giustifica un’operazione così grande.
Di problemi simili soffrono, per restare a oggi, le cover di Buon compleanno Elvis!, 13 tracce per addirittura 15 ospiti, in cui c’è un po’ di tutto: dagli amici di Ligabue come Francesco De Gregori, Elisa e Fiorella Mannoia alle nuove generazioni, come Gazzelle, Venerus e addirittura Shablo con Mimì e Tormento. Per carità, è chiaro anche a Ligabue stesso, credo, che mettere insieme artisti così distanti in un unico disco, lasciando peraltro loro campo aperto, senza mai far sentire la voce dello stesso Ligabue, significhi creare un enorme carosello. C’è chi si salva, per lo più giganti come Mannoia e De Gregori, lei perché è tra le più grandi interpreti di sempre che abbiamo, lui con una versione asciutta di Certe notti, un valzer armonica e chitarra in stile Buonanotte Fiorellino, in cui chiaramente è il carisma a dominare. Più in là, oltre il prevedibile effetto karaoke, ciò che dispiace è di nuovo la mancanza d’anima: tanti pezzi, come nel caso di nuovo di La mia storia tra le dita di Pausini, sono prodotti con gli standard di oggi e suonano tutti irrimediabilmente limpidi, lindi e pinti, patinati per le radio, quando in realtà la forza degli originali era proprio la loro sporcizia anni novanta.
Meglio gli originali
Ecco, il problema è proprio lì: non è che non si debbano fare cover, né che un pezzo non si debba mai stravolgere, anzi; le cover migliori, certe volte, sono quelle che ribaltano il banco, ma per farlo serve avere un’idea, una direzione, qualcosa da dire usando parole e musica già suonate da altri. O al più, dovrebbero mettere una certa voglia di far ascoltare l’originale, tirare fuori perle nascoste. Se il risultato però è di ridurre tutto al gusto di una playlist e di un algoritmo, perfino qui dei pezzi che alla loro epoca non conoscevano né playlist o algoritmi, è un danno. Così come cantare canzoni di altri, autorizzazioni o meno, solo per metterle in circolo, timbrare il cartellino. Le cover sono un’arte a sé, chiedono idee alla base, prima ancora che immedesimazione. Ma oggi, si vede, le idee in giro sono pochine.