I protagonisti di Tre ciotole, Alba Rohrwacher ed Elio Germano
È BELLO POTER TORNARE A PENSARE A MICHELA MURGIA (1972-2023) grazie a Tre ciotole, il film che la regista spagnola Isabel Coixet ha tratto dal suo libro del 2023. Il sottotitolo del volume è Rituali per un anno in crisi. Il 2023 è l’anno della sua morte.
La regista Isabel Coixet: tre ciotole e una domanda sola
Del film, nei cinema distribuito da Vision Distribution, Isabel Coixet (La mia vita senza di me, La vita segreta delle parole, La casa dei libri) ha detto: «Mi ha aiutato a riflettere sull’unica domanda che conta. Cosa significa essere veramente vivi?». L’ha fatto concentrandosi su due dei racconti del libro e tornando su temi a lei cari come la musica e la cucina. Con lei, i protagonisti Alba Rohrwacher ed Elio Germano. E il resto del cast: Silvia D’amico, Galatea Bellugi, Francesco Carril, Sarita Choudhury.
Alba Rohrwacher è Marta
Storia di Tre ciotole: la trama e il cast del film dal libro di Michela Murgia
Una banale discussione, in una serata come tante, continua fino a determinare la separazione tra Antonio (Elio Germano), chef troppo dedito al lavoro, e Marta (Alba Rohrwacher), insegnante in un liceo di Roma. Quest’ultima, dopo la rottura, si chiude in sé stessa perdendo l’appetito. La cosa la spinge ad andare dal medico, che purtroppo le diagnostica un male con il quale rischia di dover convivere per il resto della vita che le rimane da vivere. Ma mentre lei cerca di trovare un senso alla propria esistenza passata, presente e futura, mettendo in discussione le scelte fatte e le amicizie che la circondano, lui si accorge di non riuscire a dimenticarla. Lei si concentra su una salutare selezione, lui non può. Entrambi attraversano diverse fasi, allontanandosi e avvicinandosi. Mentre le rispettive esistenze vanno avanti, rendendoli persone diverse da quelle che erano.
Alba Rohrwacher e Sarita Choudhury
Tre ciotole, recensione: due protagonisti perfetti, con intorno qualche cliché di troppo
La vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altre cose, diceva John Lennon. Lo sanno benissimo i protagonisti di Tre ciotole, come lo sapeva benissimo Michela Murgia. Il film si concentra su due dei 12 racconti del suo libro. Se Rohrwacher e Germano sono perfetti (Coixet si conferma ottima direttrice di attori), i personaggi di contorno lo sono meno. La giovane dipendente del ristorante (Galatea Bellugi) col suo campionario di frasi fatte suona appiattata su quei cliché che la regista usa per farci arrivare “il messaggio”.
Elio Germano e Galatea Bellugi
Lei come altri, restano come meteore, figure accessorie slegate dalla storia che si evolve. E in cui Marta è molto più centrale di Antonio, a lungo tenuto “da parte” (salvo esser compensato con un epilogo più naturale e comunicativo del didascalico finale). L’accumulo di dettagli rende il racconto più pedante che pesante, a tratti. Ma permette di far risaltare le pause di un tale tourbillon esistenziale, i pochi punti di riferimento. Quelli di una Roma, vera, che fa capolino dietro quella da cartolina o della bolla nella quale Marta vive. E quelli riconquistati, fatti propri, come le tre ciotole del titolo, simbolo della riappropriazione di sé della protagonista, di un equilibrio basato sull’accettazione «delle cose che non posso cambiare». Inutile cercare un senso della vita, se poi non si vive (parafrasando Serafino Gubbio, da Pirandello). Tanto vale viaggiare, anche solo con la fantasia, leggeri, come una sagoma di cartone.
Elio Germano è Antonio
Tutto nasce dal libro di Michela Murgia, come avete affrontato un pensiero che ha raccolto tanti seguaci come fosse una religione?
In maniera del tutto laica! Come quando interpretai il film tratto dal libro di Tiziano Terzani (La fine è il mio inizio, ndr), un altro che è stato “beatificato” dalle persone. Non so quanto a Michela stessa potesse far piacere, come dire, avere una schiera di adepti. Penso che amasse le persone capaci di pensiero critico e di sviluppare una idea propria, non imboccata da qualcuno. Quanto al film credo sia molto rispettoso del libro, tanto che sono rimasto colpito da come un tradimento della storia potesse essere così rispettoso. L’obbedienza cieca non produce mai buoni risultati.
Si è chiesto se piacerà, questa scelta?
Credo che mai come in questo caso chi ha apprezzato i racconti di Michela Murgia sarà piacevolmente sorpreso nel ritrovare un film molto diverso ma uguale, molto vicino al libro. Che racconta esseri umani spaesati rispetto a ciò che sta avvenendo a loro e intorno a loro. Mettendo in rilievo come spesso queste situazioni si palesino quando siamo distratti da altro: carriera, ambizioni, sogni… Da un punto di vista emotivo mi hanno colpito tutte le scene sulla malattia, sono argomenti che riguardano tutti noi e non puoi non pensarci quando li affronti. Da un punto di vista tecnico, invece, quello che mi inquietava di più era la rappresentazione del lavoro di Antonio: non potevo far capire che avevo frequentato le cucine soltanto per due settimane.
Con Alba siamo già stati perfino San Francesco e Santa Chiara
La chimica con Alba Rohrwacher è perfetta. Conoscervi è stato utile a dare vita alla storia d’amore di un uomo che si accorge tardi di aver sbagliato scelte?
Abbiamo girato insieme Mio fratello è figlio unico di Luchetti, dove eravamo fratello e sorella. In Troppa grazia di Zanasi eravamo una coppia. Siamo stati perfino San Francesco e Santa Chiara nel film belga Il sogno di Francesco. Qui Marta e Antonio sono persone in crisi, perché il film, un po’ come il libro, guarda a degli esseri umani senza volerli per forza risolvere. I nostri non sono personaggi, quanto piuttosto persone, che raccontano le difficoltà che abbiamo tutti. È tutta una gara a fare numeri, e spesso i lutti, le perdite, i traumi ci riaprono gli occhi sull’assurdità della vita. Allora disperatamente andiamo a cercare dei brandelli di umanità perduta negli altri. Marta e Antonio cercano di comunicare tra loro, e ci riescono forse proprio nel momento del loro addio.
Questa dipendenza da like la vediamo anche nei film, è la finta democrazia imposta da internet?
Siamo tutti persi in cose cui diamo una grande importanza, perché la nostra società dice che debbano averne, ma come effetto collaterale questo produce conflittualità tra gli individui. È una continua gara, perché la grossa bugia con la quale veniamo allevati è che la vittoria dà la felicità. Invece è l’anticamera della solitudine e dell’infelicità. Siamo la prima società della Storia che non fa i conti con ciò che invece ci riguarda tutti. Una società fondata sulla rimozione della malattia, la morte, la fine. Sono l’unica certezza, ma quando arrivano ci prendono di sorpresa, e sonoramente a schiaffi.
Dal dolore alla felicità e viceversa
Pensando a quel che succede nel film, è concepibile amare la vita anche in condizioni così estreme?
Banalmente, quando qualcosa che dai per scontata viene messa in discussione, ne cogli il valore. Come durante il Covid, quando improvvisamente abbiamo dato valore a cose che prima trascuravamo, con le quali non ci vogliamo confrontare. Uno dei temi del film è che il dolore può aprire la porta alla felicità. E, viceversa, quanto invece inseguire la felicità possa generare dolore. Antonio riscopre quello che ha perso in quel momento lì. Perché “normalmente” evitiamo di pensare alle grandi questioni e non dedichiamo spazio al rito, al mistero, a ciò che definiamo inutile perché non quantificabile.