di
Filippo Mazzarella
Il titolo originario doveva essere «Eight Arms to Hold You», ma fu cambiato in corsa per accomodare il nuovissimo singolo di Lennon e McCartney
Quando il 29 luglio del 1965 Aiuto!/Help! di Richard Lester (alla sua seconda regia per i Beatles dopo Tutti per uno/A Hard Day’s Night dell’anno precedente) fu presentato a Londra in anteprima mondiale, i Fab Four erano forse all’apice assoluto della Beatlemania (l’LP sarebbe uscito la settimana dopo, in contemporanea con la prima del film nelle sale), ma già sul punto di portare alla rarefazione le tournée live per concentrarsi sulla sperimentazione in studio che porterà nel volgere di due anni alla realizzazione di una formidabile tripletta di album (Rubber Soul, dicembre 1965; Revolver, 1966; e l’epocale Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 1967). Il film riflette in parte questa transizione: se Tutti per uno aveva colto l’energia più giovanile e autentica della band, Aiuto! ne restituisce un’identità più «costruita» e fors’anche frammentata, seppur ovviamente ancora filtrata dallo sguardo ironico e iconoclasta di Lester, autore americano e purtuttavia britannico nello spirito che aveva assimilato e riorganizzato a suo modo anche i furori del free cinema del decennio prima.
Il titolo originario doveva essere Eight Arms to Hold You, ma fu cambiato in corsa per accomodare il nuovissimo singolo di Lennon e McCartney (Help!, appunto). E il film, su richiesta dei quattro, fu girato in uno smagliante Technicolor (a differenza del bianco e nero dell’esordio) e ambientato tra Londra, le Alpi, le Bahamas e interni ricostruiti ai Pinewood Studios. La storia è di gran lunga più articolata e bislacca di quella del film precedente. Quando un culto orientale devoto a una dea sanguinaria è costretto a interrompere il sacrificio di una giovane a causa della mancanza di un anello rituale che la vittima avrebbe dovuto indossare (e che si trova per errore al dito del batterista Ringo Starr del quale la ragazza prescelta era una fan), il gran sacerdote Clang (Leo McKern), l’algida adepta Ahme (Eleanor Bron) e un drappello di accoliti si vedono costretti a raggiungere Londra per reclamarlo e immolare il nuovo designato: ovverosia proprio Ringo.
Tra tentativi di furto falliti e inseguimenti da cinema muto, il poveretto e i suoi sodali Paul McCartney, John Lennon e George Harrison si ritrovano ben presto braccati, vittime tanto della setta quanto di una seconda minaccia: lo scienziato pazzo Foot (Victor Spinetti) e il suo assistente Algernon (Roy Kinnear), interessati a impossessarsi dell’anello come chiave per un piano fantomatico di dominio universale. Poiché il gioiello sembra incollato al dito di Ringo e ogni tentativo di sfilarlo si rivela vano, Ahme tenta una soluzione d’emergenza con un siero restringente; ma la siringa finisce per errore su Paul, che rimpicciolisce temporaneamente. Dopo mille altri imprevisti sempre più folli, i Beatles si ritroveranno alle Bahamas, dove Foot e Clang avranno ciò che si meritano mentre Ahme passerà definitivamente dalla parte dei quattro.
Rocambolesco, spregiudicato, demenziale ante litteram e già «contaminato» dalla prassi dei film di 007 coi loro continui e assurdi cambi di location (la parte girata alle Bahamas fu un’esplicita richiesta della band: «Non ci eravamo mai stati»), il secondo lungometraggio dei Beatles si configura come una parodia dei film d’azione spionistici e delle avventure esotiche anni Quaranta, ma anche un omaggio ai cartoon Warner e alle follie dei fratelli Marx in una struttura evidentemente priva di qualsiasi logica e ispirata al classico oggi dimenticato Hellzapoppin’ (1941) di H.C. Potter.
I dialoghi nonsense, la frammentazione narrativa, le interruzioni musicali e gli sfondi volutamente artificiali rendono il film un pastiche a tratti psichedelico, ma più spesso genuinamente infantile. E certo anticipatore della frammentazione visiva che caratterizzerà un decennio dopo i primi videoclip. La regia di Lester, meno «sobria» e più sperimentale rispetto al film precedente, gioca con le accelerazioni slapstick, i movimenti di macchina elaborati e surreali (si vedano certe carrellate assolutamente impossibili, come quella iniziale che coglie i Beatles nella loro casa open space) per disinnescare totalmente ogni parvenza di realismo e amplificare un effetto di straniamento continuo che la sceneggiatura di Marc Behm e Charles Wood (ma con lo zampino di un po’ tutti i coinvolti) asseconda con disinvolta anarchia.
Tutto riflette il clima di libertà creativa della Swinging London, ma anche, a sorpresa, quella che fu testimoniata a posteriori come una vera e propria insofferenza già maturata dai Beatles nei confronti della macchina dell’industria cinematografica e della promozione. Sotto la superficie giocosa si intravede infatti una tensione latente: quella tra l’immagine dei musicisti come personaggi-icona, piegati anche per dovere di marketing all’intrattenimento di massa, e la loro identità reale di artisti «veri» e sempre più insofferenti a quel ruolo. Ciò malgrado, l’intreccio totalmente pretestuoso si fa cornice automatica del caos gioioso di una creatività che, come già dimostrato dalla loro lezione musicale rivoluzionaria, pone comunque i Beatles in fuga dai modelli tradizionali anche nella logica ed estetica cinematografiche (come confermeranno poi lo special televisivo in forma di film Magical Mystery Tour, 1967, e il celeberrimo cartoon Yellow Submarine, 1968). Sono sette i brani che non solo commentano l’azione, ma la interrompono e rifrangono, costituendo l’essenza musicale del film: Help!, You’re Going to Lose That Girl, You’ve Got to Hide Your Love Away, I Need You, The Night Before, Another Girl e il capolavoro Ticket to Ride (utilizzato nella bellissima sequenza sulla neve).
Poco amato dalla critica alla sua uscita (ma anche dopo: sulla rappresentazione parodica del culto orientale si è discusso a lungo, sebbene vada letta ancor oggi solo e soltanto nel contesto delle derive kitsch della cultura pop inglese del periodo), è diventato però oggetto di culto istantaneo per i fan e ha probabilmente influenzato anche i Monty Python (la cui carriera è iniziata nel 1969). Rivisto oggi, mostra ovviamente tutti i suoi anni; ma conserva intatto il suo valore di testimonianza unica del genio dei Beatles, capaci di trasformare ogni forma espressiva in un’esplosione di creatività, innovazione e (non sia mai dimenticato) ironia.
29 luglio 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA