Fine aprile, primi di maggio 1982. Studi di registrazione Power Station, New York. Bruce Springsteen comincia a provare delle nuove canzoni con la E Street Band. È svuotato, forse sull’orlo di un abisso. Una crisi profonda – tra passato e presente – sta affiorando, ma non ne è del tutto consapevole. Se ne renderà conto circa un anno dopo. Il doppio The River e il tour relativo sono stati un successo e ne preconizzano un altro, se possibile ancora maggiore. È l’inevitabile – e tossico – refrain dell’industria discografica. Nei mesi precedenti Springsteen si è rifugiato a Colts Neck, dopo aver affittato a scatola chiusa una ranch house — una casa a un piano immersa in un bacino idrico — in seguito allo sfratto mentre era in tour in Europa dalla cascina di Holmdel, dove viveva da cinque anni. In quel periodo nemmeno i suoi musicisti sono certi di dove viva.

Impaurito da un destino già scritto, quello di rockstar globale, si è fatto clandestino nella propria vita. Chi sta diventando? È il figlio fortunato della classe operaia e, per questo, oppresso dai sensi di colpa? L’artista che cerca di nascondere sotto il manto delle canzoni i traumi dell’infanzia? O l’uomo di 32 anni con una voragine dentro, che deve cominciare a prendersi cura di sé? Probabilmente tutte e tre le cose.

In quei giorni di aprile negli studi porta con sé una specie di talismano dentro cui ha riversato la narrazione del suo inconscio ribollente: una cassetta Maxell senza custodia. La tiene in tasca, ormai piena di pelucchi. Sopra ci sono una quindicina di demo acustici, registrati a una velocità inconsuetamente bassa, che diventerà il tratto distintivo del disco, insieme agli effetti echoplex che ricordano le Sun Sessions di Elvis Presley o i dischi dei Suicide (in quel periodo Alan Vega e Springsteen hanno stretto amicizia nei corridoi dei Power Station). Le tracce, per lo più ballate folk minimaliste influenzate da country e rock, conservano rumori di fondo come lo scricchiolio di una sedia. Le canzoni sono mini-racconti, talvolta narrati in prima persona, che alternano vicende di cronaca nera a sguardi infantili e biografici.

Dalla scia di sangue — quella che Charles Starkweather e Caril Ann Fugate, ripresa nel debutto di Terrence Malick Badlands (La rabbia giovane), hanno lasciato dietro di sé nel biennio ’57-’58 uccidendo 11 persone — alla casa sulla collina (Mansion on the Hill, titolo “rubato” a Hank Williams), così magica ma inarrivabile, fino a quella onirica del padre Douglas Springsteen, da cui cercava invano protezione (My Father’s House); di gente che ha debiti che “un uomo onesto non può saldare” in una Atlantic City del gioco d’azzardo dove regna la malavita; alle macchine usate (Used Cars) con cui Douglas cercava di sbarcare il lunario; all’operaio della Ford che perde il lavoro e uccide per disperazione, ma poi si pente (Johnny 99, la Frankie Teardrop di Springsteen); al dilemma morale dell’agente di Highway Patrolman; fino a Open All Night, in stile Chuck Berry, dove il cantante chiede al dj (e al rock and roll) di “liberarlo dal nulla”.

Sono il frutto di un’incisione casalinga datata 3 gennaio di quell’anno, registrata su un Tascam quattro piste nella camera da letto della nuova casa, con la complicità del suo tecnico delle chitarre, Mike Batlan. Ed è l’unica copia esistente.

La E Street Band, Jon Landau e lo stesso Springsteen si scervellano per cavarne fuori un album full band, tentando l’elettrificazione, ma senza esiti soddisfacenti. A un certo punto il Boss ha come una rivelazione, tira fuori la cassetta dalla tasca ed esclama: «Usiamo questa». Il disco sarà pubblicato così com’è. Dieci brani, scelti da quel nastro, comporranno la tracklist di Nebraska, uscito il 30 settembre di quell’anno. È la prima e unica volta nella sua carriera che il Boss realizza un album — considerato da molti il suo più grande capolavoro — senza rendersene conto.

Oggi quella cassetta consunta, e il magico intrico che si porta dietro, simbolo forse del momento più incredibile della storia della musica lo-fi, torna al centro della scena. E lo fa in modo luculliano con Nebraska ’82: Expanded Edition, il box set che scava nelle viscere del disco del 1982 – in uscita il 24 ottobre, una settimana dopo Deliver Me from Nowhere (in italiano: Springsteen – Liberami dal nulla), il biopic di cui tutti parlano, tratto dal bellissimo saggio omonimo di Warren Zanes, già membro con il fratello Dan dei semi-dimenticati Del Fuegos e produttore esecutivo del film.

Il box – quattro LP/CD e un Blu-ray – raccoglie tutta la storia: Electric Nebraska, ovvero un estratto dalle session al Power Station con la E Street Band mai comparse prima (nemmeno sotto forma di bootleg) e su cui, negli anni, tanto si è speculato (a un certo punto Springsteen stesso aveva completamente dimenticato della loro esistenza); le registrazioni di Colts Neck rimaste inedite (Nebraska Outtakes) con l’eccezione di On a Prowl e Gun in Every Home registrate in studio; il remaster 2025 dell’album originale; e una recente performance ripresa dal regista Thom Zimny al Count Basie Center for the Arts, in cui Bruce, quasi per colmare un gap storico (a Nebraska non seguì un tour), presenta in sequenza tutti e dieci i brani, accompagnato alle tastiere dall’E Streeter Charlie Giordano e dal chitarrista Larry Campbell.

Più del live – impresa lodevole ma tardiva – sono gli inediti, già circolati in vari bootleg, a fare gola, insieme ovviamente alle versioni full band di Nebraska. Si apre con il demo di Born in the U.S.A., l’unico pezzo che Springsteen, a posteriori, rimpiange di non aver inserito nel disco (inizialmente si era persino ventilata l’ipotesi di realizzare un altro doppio album, dopo appunto The River, con i demo acustici e le nuove canzoni poi confluite in Born in the U.S.A., ma l’idea è stata accantonata). La versione è scarnificata, ululante e allucinata come non l’avevamo mai sentita: già apparsa su Tracks del 1998, il nuovo trattamento sonoro la rende quasi un altro demo rispetto al passato. Spogliata delle vesti della futura hit – title track del blockbuster del 1984 – che diventerà, suo malgrado, il simbolo della sua intera carriera, il brano si mostra come un manifesto programmatico, destinato a essere rivisitato negli anni nelle performance acustiche dal vivo.

La storia del veterano del Vietnam, alienato nel Paese per cui ha combattuto, è la cifra stilistica che Springsteen sta cercando di mettere a fuoco: fondere politico e personale, misurare la distanza fra sogno americano e realtà con uno stile austero e antimelodico. Siamo a pochi giorni dall’insediamento di Ronald Reagan, il 20 gennaio 1981, ma, anche se l’era reaganiana ha influenzato l’analisi e la storia di Nebraska (e più tardi Born in the U.S.A., la versione “pompata” del disco del 1984, sarà strumentalizzata in un famigerato discorso presidenziale), la collocazione temporale non è così indispensabile. Tutte le storie di Nebraska, comprese quelle dei brani poi scartati, spaziano dagli anni ’50 all’inizio del decennio degli yuppies: più che un’America precisa – quella, in questo caso, del “Let’s Make America Great Again” (claim poi riutilizzato da Trump) di reaganiana memoria – è un’America cristallizzata, soffocata nelle sue contraddizioni.

Losin’ Kind, un’altra outtake, contiene l’embrione di Highway Patrolman ma è decisamente più malinconica. La versione rockabilly di Downbound Train, con i suoi lamenti blues — di cui State Trooper era l’esempio più fulgido sul Nebraska originale — non è sviluppata al meglio e cede il passo alla sorella più popolare con le tastiere. Child Bride, dove l’io narrante viola il Mann Act (una legge federale che punisce lo sfruttamento sessuale), è una ballata dolce e avvolgente, grazie all’uso del glockenspiel, che contiene i semi di Working on the Highway e cita quell’insensatezza del mondo reclamata in tribunale da Starkweather per dare una cornice di senso ai suoi crimini. Pink Cadillac è al rallentatore, ipnotica, e offre una prospettiva completamente differente rispetto alla versione pubblicata in seguito come B-side di Dancing in the Dark.

Working on the Highway, punk-acustica e tambureggiante, “ignorante” diremmo, si rivela più curiosa della famosa sorella minore messa su disco nel 1984 e ormai completamente esaurita a furia di “karaoke” live. On the Prowl è un rock and roll selvaggio che sembra uscito da un disco di Jerry Lee Lewis con la chitarra al posto del piano. Si chiude con un grido espressionista in stile Vega, seguito da una risata. Gun in Every Home è la ballata struggente, forse la cosa più bella di Nebraska ’82: Expanded Edition. Ricorda sorprendentemente Signora aquilone di Francesco De Gregori.

Electric Nebraska non copre tutta la tracklist dell’album, ma solo otto brani, e al posto di alcune tracce presenti sul disco originale compaiono Downbound Train e Born in the U.S.A. Mentre le ballate (Nebraska, Mansion on the Hill) non presentano scarti significativi, diverso è il discorso per i brani più uptempo. Le versioni elettriche di Atlantic City, Johnny 99, Open All Night e Reason to Believe potrebbero valere “il prezzo del biglietto”. Quelle che però si fanno ascoltare in loop sono soprattutto le prime due, con Atlantic City che brilla sopra tutte. Born in the U.S.A. e Downbound Train suonano oggettivamente come “corpi estranei”. 

Succede spesso che, quando si fantastica su qualcosa, il risultato rischia di deludere: Electric Nebraska non fa eccezione. Del resto, se tutto l’entourage di Springsteen ha condiviso l’idea che fosse meglio pensare a un progetto solista (e qui c’è la solita gara: Stevie Van Zandt sostiene di essere stato il primo a dirlo; Springsteen rivendica che fu una sua decisione; forse fu Landau; nessuno lo sa con assoluta certezza), un motivo ci sarà stato.

In ogni caso, la sorpresa nell’ascoltare i brani elettrici di Nebraska è relativa: in 43 anni ci sono state molte occasioni per suonarli dal vivo, e questi demo elettrici rappresentano il blueprint di ciò che la E Street Band e il Boss avrebbero poi portato sul palco.

Nebraska ’82: Expanded Edition è un viaggio nella camera oscura in cui l’album Nebraska ha preso forma. Un disco che è laboratorio sonoro e letterario, ricco degli influssi di autori che Springsteen ha scoperto in quel periodo: i racconti di Flannery O’Connor, il noir di James M. Cain e Jim Thompson, e l’estetica di registi come Terrence Malick, Charles Laughton, John Ford e John Huston. Springsteen si immerge anche nella storia americana – da Ron Kovic a Howard Zinn, da Joe Klein a Allan Nevins e Henry Steele Commager – e riscopre Woody Guthrie, Bob Dylan e Hank Williams, cercando storie da trasformare in canzoni universali. Non a caso, Nebraska è l’unico disco di Springsteen che piace anche a chi non ama Springsteen.

La copertina, decisamente non da disco di una rockstar, mostra un cielo cupo visto dalla prospettiva del parabrezza di un’auto (scatto in bianco e nero di David Michael Kennedy, risalente al 1975) e l’inconfondibile lettering rosso e nero inventato da Andrea Klein. È l’unica nella discografia di Springsteen – assieme al debutto e a Western Stars – in cui non compare il Boss. 

Springsteen decide di affrontare delitto e castigo, alienazione e colpa, punti di vista infantili e sognanti con l’ausilio del portastudio Teac 144, una chitarra Gibson J-200, armonica, tamburello e glockenspiel, più l’effetto echoplex, con la registrazione finale passata attraverso un boombox Panasonic. La nuova frontiera, a quei tempi, dell’autoproduzione si rivela l’epifania di tutta la vicenda. Scelto per abbattere costi e tempi di studio (l’unica cosa per cui fino a quel momento aveva speso soldi in vita sua), l’allestimento di Mike Batlan gli regala quello che Bob Ross avrebbe definito l’incidente più felice della sua carriera.

Viene poi affrontato il problema di riversare tutto su vinile, ma ne vengono fuori grazie agli Atlantic Studios e a Dennis King, che, non riuscendo a stare al passo coi tempi, dispone ancora di attrezzature vintage adatte allo scopo: un altro incidente felice.

Come scrive Warren Zanes in Liberami dal nulla, «Nebraska aveva una prerogativa: era un disco a rilascio graduale. Rivelava i suoi strani poteri con il passare del tempo». Direi che è stato proprio così. E oggi, ancor di più.