di Enrico Caiano
L’attore è protagonista e produttore con PiperFilm di “Per te”, film ispirato alla storia vera di Paolo Piccoli, colpito da Alzheimer precoce a 43 anni, e della sua famiglia. «Mio padre mi ha confessato lo choc di quando dovette farle il bidet: ancora oggi la definisce come una delle esperienze peggiori e più devastanti della sua vita»
Una scommessa. Fondata su una convinzione profonda, maturata in ormai tanti anni di cinema e teatro: «L’arte non è mai solo intrattenimento. Anche quella più popolare, anche quella più leggera, se pure non arriva a livello cosciente ma resta a livello emotivo, in qualche modo ci migliora. E allora, quando ti arriva addosso in un momento difficile, è cura, è una medicina.
Un moltiplicatore in caso di felicità: se sei innamorato e ti dedicano una canzone o una poesia magari scritta 500 anni fa ma che racconta esattamente quello che provi, ti innamori di più. Allo stesso modo quando stai vivendo situazioni molto drammatiche ti aiuta a condividere con qualcuno il tuo dolore». Edoardo Leo ha interpretato e prodotto con PiperFilm, Lungta Film e Alea Film Per te, nei cinema dal 17 ottobre dopo l’anteprima alla Festa di Roma e ad Alice nella Città (PiperFilm è anche distributore).
È tornato così a lavorare per la terza volta con uno dei registi che più stima, Alessandro Aronadio. Per dimostrare a sé stesso e a tutti che anche con una commedia si può portare agli spettatori il dramma della malattia. In questo caso una malattia terribile, l’Alzheimer, nella sua sfaccettatura ancora più devastante: la forma precoce che ha colpito nella realtà, nel pieno della vita, a 43 anni, Paolo Piccoli, un uomo di Concorda Sagittaria (Venezia) ora costretto a vivere in una Rsa. Contando però, anche lì, sull’enorme affetto della moglie Michela Morutto e dei suoi due figli, Mattia e Andrea. Anche se, a poco a poco, è destinato a non sapere più chi sono.
Come ha costruito il personaggio di Paolo? È andato a trovarlo nella Rsa, si è fatto raccontare di lui dai suoi familiari?
«Quando ho fatto 18 regali (il film sulla storia vera di Elisa Girotto, una madre che quando scoprì che per il tumore al seno non avrebbe potuto veder crescere la figlia neonata le lasciò 18 regali per i suoi futuri compleanni fino alla maggiore età; ndr) sono andato a conoscere quella famiglia e quella bambina. Ho visto la casa e i regali.
Qui invece c’era tantissimo materiale video su YouTube di Paolo Piccoli: l’ho visto più e più volte e l’ho studiato. Andarlo a trovare nella Rsa in un momento in cui lui non sta bene, sapendo che non sarebbe in grado di riconoscermi mi è sembrato qualcosa di non funzionale al racconto. Qualcosa di voyeuristico.
Con Alessandro Aronadio abbiamo voluto fare un film molto particolare, ma mai ricattatorio. Volevamo rispettare il dolore della famiglia, pur sapendo che come sempre succede al cinema la realtà viene un pochino trasfigurata. Volevo prendere l’essenza di quella storia e cercare di metterla dentro la costruzione del film. Non volevo che i suoi cercassero lì a tutti i costi il loro Paolo e allo stesso tempo – passatemi il termine – non volevo fare la sua imitazione».
Non ha voluto incontrare neanche la moglie, nel film interpretata da Teresa Saponangelo e il figlio che è l’esordiente Javier Francesco Leoni?
«Li ho incontrati alla fine delle riprese e gli ho detto che abbiamo cercato di rispettare il loro dolore in ogni modo possibile. Il loro e quello di tutte le famiglie che vivono questa malattia terrificante. Ho detto a quel ragazzino che abbiamo cercato di rendere universale la storia della sua famiglia e di non cercare nel film suo papà. Che suo papà sta nella Rsa e finché c’è deve cercare di stargli il più vicino possibile».
I suoi ultimi due film – penso anche a 30 notti con il mio ex con Micaela Ramazzotti – hanno al centro il tema della malattia, qui l’Alzheimer, là il disagio mentale. Non può essere un caso…
«Vero. Mi interessa molto come il disagio mentale o una patologia come l’Alzheimer influiscano nei rapporti di coppia e in quelli familiari. Come qualcosa di esterno che può sembrare ineluttabile possa modificare in modi imprevedibili i rapporti. Forse è frutto dell’età: da quando ho compiuto 50 anni ho cominciato a pensare a queste cose…».
Anche se forse sul tema Alzheimer c’è qualcosa in più che si porta dentro…
«Sì, è una malattia che ho avuto in famiglia: mia nonna è morta molto giovane di Alzheimer, aveva attorno ai 55 anni. Quando sono entrato in contatto con questa storia c’era ovviamente anche l’urgenza di ricordare tutto quello che avevo vissuto da adolescente e quello che ha vissuto mio padre. Ora che sono state diffuse le prime immagini del film, mi hanno sconvolto le reazioni che mi sono arrivate, ho capito quante persone hanno a che fare in un modo o nell’altro con questa patologia.
Il regista e io non volevamo però realizzare un film sulla malattia ma sull’oblio, sulla dimenticanza, l’accudimento e l’accoglienza. Limbo doveva intitolarsi in un primo tempo. Sostanzialmente abbiamo fatto un film d’amore, in cui c’è un figlio che è costretto a fare da padre a suo padre. Abbiamo cercato anche di mantenere i toni lievi della commedia. Confesso che da quando ho cominciato a lavorare su questo personaggio ogni volta che a casa non ricordavo dove avevo messo le chiavi o gli occhiali, tra me e me dicevo “ecco, arriva la malattia”».
Ora che l’ha studiata per il film quanto le fa paura questa patologia?
«Per carità, tra le malattie non si può fare una classifica. Però riflettendo in astratto sul fatto che noi abbiamo sempre tanta paura che qualcuno si dimentichi di chi siamo, pensare che ci si possa ammalare di qualcosa per cui sei tu che puoi dimenticarti di qualcuno mi pare la cosa peggiore che ci può capitare. È quello che ha vissuto Paolo Piccoli.
Se poi pensi che nella prima fase della malattia tu sei cosciente e ti dicono che tra un po’ di tempo non ti ricorderai chi è tuo figlio, chi è tua moglie o di chi è tuo padre… beh, questa sensazione credo faccia precipitare in una sorta di solitudine cosmica: man mano che avanza quel male tu perdi la coscienza! L’altra cosa terribile che raccontiamo nel film, dove per gran parte della storia Paolo non è ancora nella fase conclamata dell’Alzheimer, è che questa malattia funziona al contrario delle nostre abitudini.
Se siamo giustamente abituati a perdere dalla memoria i ricordi più lontani, qui capita invece di perdere quelli più recenti per poi precipitare nel tuo passato, perché quelli sono i ricordi che ti vengono lasciati. Un qualcosa di inimmaginabile. Studiandola, ho capito che la malattia non colpisce solo testa ma lentamente influisce sul senso dell’equilibrio, perdi il controllo delle braccia, i tuoi passi diventano passetti sempre più corti, il corpo si richiude su sé stesso».
Quando sua nonna si ammalò cosa capitò in famiglia? Ha voglia di ricordarlo?
«I miei nonni erano tutti e due contadini ma chi teneva i conti di casa e gestiva concretamente la famiglia, non solo i figli, era mia nonna. Quando lei ha cominciato ad ammalarsi mio nonno fu completamente perso: era capace di lavorare anche 40 ore al giorno su 24 ma solo quello sapeva fare.
Nella campagna romana coltivavano fagioli e l’uva per fare il vino. Conserviamo ancora i quaderni su cui mia nonna appuntava i chili venduti, il margine di guadagno. Io ero adolescente all’epoca, appena maggiorenne quando morì. Ho vissuto quella tragedia attraverso lo sguardo di mio padre. Erano lui e i suoi tre fratelli, tutti maschi, a gestire la situazione.
A lui toccava andare nella casa di campagna ad assisterla due volte a settimana, era il suo turno. Non si è mai lamentato, ha reagito con grande pudore a una disgrazia che l’aveva trasformato nel papà di sua madre. Nei giorni in cui giravo, lui mi chiedeva del film e io gli chiedevo di allora.
A un certo punto mi dice: “Ma sai che un giorno ho dovuto fare il bidet a tua nonna?”. Mentre ricordava una cosa così terribile che ha a che fare con la dignità di una persona – lavare tua madre perché si è dimenticata come si fa – la definiva ancora oggi una delle esperienze peggiori e più devastanti della sua vita».
Pensa che il film possa instillare negli spettatori una nuova sensibilità su questi temi?
«Me lo auguro. Penso anche al fatto che mia nonna erano in 4 fratelli ad accudirla e si poteva fare. Ma se non hai una famiglia così devi affidarti a una struttura. E sono poche e costose. Accendere un faro con il cinema non può che far bene, a quello serve il nostro mestiere.
Molta gente mi ha scritto che ha voglia di vederlo, altri sono incerti perché hanno sofferto talmente tanto… ci sta. Dobbiamo comunque sempre provare a fare film che toccano corde così dolorose. Quando io l’ho visto per la prima volta ho pianto. Ma in quel pianto non c’era solo tristezza, c’era qualcosa di assurdamente romantico.
La scena che sta anche sul manifesto del film, quella in cui il ragazzino insegna a suo padre di 50 anni a farsi la barba ha in sé qualcosa di epico e meraviglioso: il cerchio della vita che si chiude, anche se al contrario».
Con i suoi figli adolescenti, Francesco e Anita, ha parlato dei temi del film e della loro bisnonna?
«La storia di Per te per entrambi è stata un modo per conoscere di più il loro nonno, avevano voglia di sapere cosa era successo con sua madre. È bello quando il mio lavoro non è solo un lavoro ma un modo per creare un canale di comunicazione con gli adolescenti, ai quali è sempre difficile parlare. Grazie ai miei ultimi film è stato più facile.
Su Mia, che aveva al centro una ragazzina come lei ,ci siamo confrontati tanto con mia figlia, su Non sono quello che sono ispirato all’Otello di Shakespeare tantissimo con mio figlio, che è un po’ più grande».
Una parola sola per definire Per te?
«Dedica. Quella che sta nel titolo. È per te. Cioè per quella famiglia, per mia nonna, per tutte le famiglie colpite dall’Alzheimer. È la dedica che Mattia fa a suo padre Paolo».
Chi è
La vita
Nato a Roma il 21 aprile 1972, Edoardo Leo ha 53 anni (nella foto a sinistra quando ne aveva 4). Cresciuto nel quartiere Ardeatino, dopo il diploma al liceo scientifico si è laureato in Lettere nel 1999 all’Università romana La Sapienza. Nel 2000 si è sposato con Laura Mariafoti e ha avuto con lei due figli, Francesco e Anita.
La carriera
Dopo alcune partecipazioni a serie tv tra cui spiccano i 32 episodi di Un medico in famiglia, debutta al cinema da protagonista nel film di Andrea Costantini Dentro la città (2004). In teatro è uno degli attori della compagnia di Gigi Proietti e recita sotto la sua direzione in Birdy e Dramma della gelosia. Presto affianca al lavoro di attore quello di regista: debutta nel 2010 con Diciotto anni dopo ma il successo vero arriva nel 2015 con Noi e la Giulia. Come attore esplode definitivamente con Perfetti sconosciuti (2016) di Paolo Genovese e la trilogia di Smetto quando voglio (2014-17). Nel 2025 FolleMente, ancora di Genovese, è stato il suo maggiore successo.
10 ottobre 2025 ( modifica il 10 ottobre 2025 | 17:18)
© RIPRODUZIONE RISERVATA