Al tempo in cui Valeria Luiselli pubblicò Volti nella folla – «il romanzo silenzioso per non svegliare i bambini» in cui una giovane donna messicana rievoca il suo felice passato newyorkese – era già abbastanza nota da indurre un collettivo indipendente di artisti visuali messicani a fare proprio il titolo del libro in spagnolo: si chiamarono dunque Los Ingravidos e, da allora, ad eccezione della loro portavoce, tutti lavorano nell’anonimato, cercando di smantellare gli aspetti più commerciali e convenzionali della produzione cinematografica di oggi. Si ispirano alle avanguardie storiche, combinano immagini digitali e analogiche, materiali d’archivio e documentari, con un linguaggio sperimentale dalle immediate ricadute politiche. Comincia da qui la nostra conversazione – al Circolo dei lettori di Torino – con Valeria Luiselli, che ha da poco ritirato il Premio Mondello, e sta passando qualche giorno in Italia.
Dunque, non solo ha ispirato un collettivo di artisti visuali, ma ne ha formato lei stessa uno, più orientato, tuttavia, verso l’ambito uditivo. Ce ne parla?
Sì, sapevo di Los Ingravidos, anche se non li conosco personalmente. Quanto a noi, ci chiamiamo Echos from the border lands (Echi dalle terre dei confini) e dal gennaio del 2020 abbiamo cominciato a registrare i suoni della frontiera tra Messico e Stati Uniti. Inizialmente, a chi incontravamo facevamo sempre una stessa domanda prestabilita sulla paura e la violenza. Così abbiamo cominciato a creare una specie di tessuto narrativo, attorno a questa sola idea. Ma dopo quasi un anno ci siamo resi conto che stavamo sbagliando. La domanda davvero importante che dovevamo farci era più semplice, e allo stesso tempo più complessa: dovevamo domandarci come suona il confine. E se lo pensiamo come qualcosa che emana un suono, che parla con voci multiple, cosa dice? Così adesso le domande che facciamo sono diverse, più aperte. Alla fine di questo lavoro vorremmo produrre un saggio sonoro della durata di 24 ore, che è il tempo necessario per guidare da Tijuana/San Diego fino a Brownsville in Texas: i due estremi del confine. Una specie di guida sonora ma anche di archivio storico della frontiera. Nel frattempo abbiamo fatto altre cose, come un piccolo libro che si intitola Studio n. 1 e che comprime la prima parte del viaggio sul confine: dalla California a El Paso. Dura quasi due ore, che corrispondono a 12 ore di viaggio, durante le quali abbiamo registrato il suono delle persone, delle tempeste di vento e di sabbia, dei coyote, della polizia, degli specchi d’acqua, della riserva Apache Mescalero, il luogo in cui la bomba atomica fu testata per la prima volta. Ogni pagina del libro dura un minuto: si ascolta e si legge nello stesso momento. Leggi una sorta di trascrizione di ciò che senti. E poi abbiamo creato anche un’installazione in una galleria, che è un modo per invitare le persone a viaggiare senza farlo veramente. Ma ciò che ci interessa di più è la possibilità di arrivare a riprodurre le intere 24 ore del progetto via radio, lungo il confine, grazie a diverse antenne, così che si possa catturare il frammento corrispondente a ciascun miglio e riprodurlo in loop. L’idea è di arrivare a fare un viaggio di alcuni giorni, con qualche fermata qua e là, ascoltando l’intero «border lands».
A proposito di confini, a lei suonano come qualcosa di reale?
Le faccio vedere una foto che ho mandato a una persona amica pochi giorni fa, con la quale discutevo proprio di questo concetto di confine. Eccola: c’è un obelisco tra Arizona e Messico. È stata scattata nel 1892. Avevano iniziato a disegnare il confine dopo il 1846, durante l’intervento degli Stati Uniti in Messico, e all’epoca misero in piedi questa cosa ridicola, in qualche modo anche buffa, chiamata «Commissione per l’amicizia e i confini». Una commissione formata dai due paesi, che si era incaricata di posizionare l’obelisco lungo il confine per iniziare la delimitazione. È così che è nato quel confine. Sembra una storia uscita da un romanzo di Kafka, o di Buzzati, con questo personaggio in cima a una roccia che mette una piccola bandiera per indicare «questi sono gli Stati Uniti e questo è il Messico». Da questo tipo di assurdità prende forma un muro, che poi diventa un centro di detenzione di massa, per trasformarsi in videosorveglianza e in interventi militari. Tutto ha inizio, dunque, con la pretesa di tirare una riga in mezzo al deserto. Se non soffriamo troppo di amnesia storica, forse tutto diventa più chiaro ed è più facile smontare strutture che sentiamo, alla fin fine, come sempre più obsolete. Per esempio, appunto, l’idea di un paese estremamente chiuso di fronte a un mondo inondato sempre di più da fattori come il cambiamento climatico, come le guerre. L’idea di confine è obsoleta, e non riflette la realtà del mondo in cui viviamo.
E tuttavia quelle righe assurdamente tirate in mezzo al deserto sono sempre più difficili da attraversare. Per di più, il fatto stesso di dirlo – in America e non solo – è sempre più difficile. Persino gli atenei statunitensi sembrano avere rinunciato ad avere una voce. Secondo lei cosa bisognerebbe fare?
Dobbiamo non avere paura. Ma non è facile, perché specialmente se non sei nato negli Stati Uniti, o se hai, come nel mio caso, una nazionalità che può venire revocata, le conseguenze possono essere molto gravi. Negli Stati Uniti, dove vivo, siamo ancora sbigottiti, esterrefatti, come un cervo colpito dai fari nella notte; siamo ancora in quello stato di shock, incapaci di organizzare una reazione sistemica. Ho fiducia che ci arriveremo, perché parliamo di un paese con una grande classe media, intelligente e determinata. C’è, ma è stordita. Magari, l’ondata che c’è qui attraverserà l’Atlantico e ci investirà laggiù.
È vero che in Europa le persone non hanno affatto rinunciato a far sentire la propria voce. Ma la classe politica sembra del tutto distaccata.
È evidente che c’è un enorme décalage tra noi e i politici, che dovrebbero rappresentarci e non lo fanno. Tutti percepiamo un divario di rappresentanza sempre più profondo: non solo non ci sentiamo rappresentati, ma ci sentiamo costantemente traditi, e questa guerra a Gaza particolarmente atroce, questo genocidio contro la gente palestinese lo ha dimostrato ripetutamente. Certo, c’è anche un’altra parte che lo nega; ma a fronte di un numero grandissimo di persone in tutto il mondo che fanno pressione perché questa guerra finisca, i nostri governi tacciono e sembrano vivere in una bolla: non rappresentano in alcun modo ciò che viene loro richiesto; ma la bolla deve rompersi, si romperà, scoppierà.
Il suo nuovo libro, che sarà pubblicato in Italia da Einaudi l’anno prossimo, «Beginning, middle, end» racconta il viaggio in Sicilia di una madre e di una figlia. Secondo la sua esperienza, viaggiare con un genitore funziona più come occasione per costruire memorie future, o per ricostruire ricordi del passato?
Entrambe le cose: è essere nel mezzo. Nello stesso momento in cui la mia narratrice ricostruisce il passato più remoto della famiglia perché la sua bambina possa conoscerlo e da qui cominciare a costruire la propria versione delle cose, sua madre sta perdendo la memoria a causa dell’Alzheimer. È un romanzo che come Giano vede i due estremi della vita: l’inizio in cui la memoria si crea, e il momento in cui la memoria evapora.
Per la prima volta, il libro che sta scrivendo, non sarà in lingua inglese. Come è arrivata a questa decisione?
È un libro che ho provato a scrivere negli ultimi anni e che costruisce un panorama dei centri di detenzione negli Stati Uniti. Per un certo periodo, nel 2019, ho lavorato come insegnante di un corso di scrittura creativa in un centro di detenzione giovanile per ragazze. Il libro viene fuori da quell’esperienza. Lo stavo scrivendo in inglese e in spagnolo contemporaneamente, come talvolta faccio; ma mi sono resa conto che non mi sentirei a mio agio se fosse pubblicato nell’America di oggi, dove si è verificato un cambiamento enorme rispetto a ciò che credevamo possibile negli Stati Uniti. Per esempio, fino a poco tempo fa sarebbe stato inconcepibile il divieto di pubblicare un libro. Per cui sì, poiché è possibile che quel che scrivo mi creerà dei problemi, penso che se lo scrivo in spagnolo, le persone che negli Stati Uniti sono deputate alla censura, alla sorveglianza, e che sono monolingue e ignoranti del mondo esterno, non si preoccuperanno di un libro pubblicato in spagnolo in Messico, che avrà fatalmente una minore visibilità.