Non è
ovviamente la prima volta Chris Abrahams, Lloyd Swanton
e Tony Buck fanno uscire due dischi in due anni. Non è
nemmeno la prima volta che un loro album presenta un minutaggio
bestiale. La capacità di superarsi è propria della loro natura. In
numeri spicci: ai 117 minuti di “Silent Night” e ai 123 di
“Mosquito/See Through” contrappongono tutto il carico dei
190 di “Disquiet”. Bisogna essere pronti, rilassati.
Aperti.
“Non
ci sono un ‘disco uno’, ‘disco due’ e ‘disco tre’”, ci assicura
il trio australiano. No. Questo è un viaggio interstellare che
procede a una velocità e suddivisione tutta sua. I brani, infatti,
sono quattro. A passo lento, in un ambiente ampio, Rapid Eye
Movement tradisce il titolo. Timing rallentato, come se la
velocità del colpo d’occhio superasse i limiti delle possibilità
umane e vedesse l’universo in slowmotion. Synth a sospensione,
pianoforte che stralcia temi dolci e carezzevoli danzano tra
contrappunti ritmici, sonagli e miraggi in graduale costruzione.
Ghost Net parla un’altra lingua. Swanton e Buck
giocano con gli accenti, danno l’imprinting e il via a un’ora e un
quarto di gioco dronico, quando per drone si intende una porzione di
brano ripetuto, un pedale “fuori tempo”. Attorno a contrabbasso e
batteria si affastellano, via via, una serie di intrusioni
percussive, acustiche, farfisiche, un linguaggio Sixties e psicotropo
e ipnagogico che manco Arthur Brown, non lesina in tensione e, quando
vuole, di un certo grado di oscura presenza, non una pausa, un
silenzio. Impossibile.
Causeway,
aria amara, lacrimevole, veicolata da suoni che si muovono eterei
rasente le pareti, arpeggi che sanno di post-rock, ambience che si
espande in ampiezza col piano elettrico a formare arazzi in trame di
“blues” incorporeo che ricoprono l’intera architettura (Monk in
testa e nel cuore) e che, ben presto, diventa fuga verso l’orizzonte.
Forse il momento più toccante di tutto “Disquiet”, sicuro
il più intenso, e ce ne vuole. Non meno intenso il jazz a grana
grossa che permea i 32 minuti di Warm Running Sunlight, non
tradisce il titolo, melodie rarefatte che scaldano, il mondo fuori
che si infiltra in quello interiore, voci che si stagliano sullo
sfondo, realtà atipiche come atipico è il viaggio intrapreso fino a
questo punto.
In un mondo in cui la velocità fa da padrona assoluta di tutto, in cui il tempo non ha più nessun dannatissimo valore, The Necks ne rivalutano tutto il peso e l’importanza. In un mondo in cui numi tutelari della musica che un tempo fu d’avanguardia e che ancora oggi, forse, non smette d’esserlo (che so, Pauline Oliveros, Steve Reich e LaMonte Young, giusto per citarne tre), The Necks si prendono uno spazio che in passato era affollato.
Il seguito di un disco tanto enorme quanto lo è “Bleed” sarebbe, per chiunque, la tipica “fatica di Ercole”, non per i tre australiani. Loro no. Il loro livello è così alto che, a guardare in basso, si sverrebbe per le vertigini.