di
Joaquin Manso
Il direttore di El Mundo intervista la premio Nobel per la Pace: «Maduro sa che le forze armate sono dalla nostra parte. Dalla Spagna ho percepito freddezza: la responsabilità nella posiizione nei nostri confronti risale a Zapatero. Ma quel che succede qui avrà conseguenze anche a Madrid»
Questa intervista è stata pubblicata da El Mundo nella giornata di ieri, dopo l’annuncio dell’assegnazione del premio Nobel per la pace a Maria Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana. La traduzione è di Rita Baldassarre.
Dalla clandestinità, da un luogo sconosciuto in Venezuela, ecco Maria Corina Machado. Finalmente. Oggi è un giorno di giubilo e di festeggiamenti. Che cosa rappresenta per lei e per il popolo venezuelano questo riconoscimento da parte della comunità internazionale?
«Oggi è un giorno molto importante per i venezuelani. Ci rendiamo conto che il mondo riconosce realmente i gesti eroici di un Paese che soffre sotto il giogo di un regime criminale, perverso e senza scrupoli, che nell’arco di ventisei anni ha distrutto le istituzioni e la società venezuelane. Ma riconosce anche un popolo forte e organizzato, che ha saputo resistere con enorme coraggio e passione. Siamo ormai giunti, a mio avviso, sulla soglia della libertà. E di qui, ovviamente, prenderemo un nuovo slancio e una nuova energia, certi di ricevere sostegno e incoraggiamento nel momento più importante».
Abbiamo appreso, questa mattina, dai collaboratori di Edmundo Gonzales che hanno parlato con El Mundo, che le sue prime parole sono state: «Ho bisogno di un abbraccio». Maria Corina, lei che ha trascorso molti mesi in clandestinità, dietro le minacce del regime, come si guida un movimento civico come il suo dalla solitudine e nell’invisibilità, senza mai cedere?
«Sì, proprio stamattina dicevo a Edmundo: “Mai come adesso, negli ultimi dodici mesi, avrei voluto che qualcuno mi fosse vicino per pizzicarmi, perché ancora non ci credo”. Effettivamente, questa è una vera sfida, perché nel nostro lavoro siamo sempre in contatto con migliaia e migliaia di persone. E per di più, in contatto molto stretto. La verità è che per noi la sfida principale è stata quella di reinventarci. Dovevamo innovare e aver fiducia gli uni negli altri. L’essenza di questo movimento inedito e storico che esiste oggi in Venezuela, al quale appartengo come altri milioni di cittadini, sta nella fiducia. La fiducia e l’amore per la libertà, per la nostra terra e la nostra famiglia».
È passato oltre un anno dalla sua storica vittoria elettorale del 28 luglio, che vi è stata sottratta con una frode vergognosa. Lei lo disse allora, con la stessa fiducia di oggi, che «non si torna indietro» e andrete avanti «fino alla fine». Oggi, finalmente, la comunità internazionale riconosce, con il premio Nobel, che quello del Venezuela è «un regime brutale e autoritario». Lei crede che oggi anche i venezuelani potranno uscire dalla loro solitudine internazionale?
«Sento che oggi non siamo più soli, che i popoli dell’America Latina e dell’Europa si stringono attorno a noi. Il popolo spagnolo innanzitutto, al quale siamo uniti da tanti legami storici e culturali, per la lingua, la religione, e i principali valori. Però oggi vediamo anche che tanti governi potenti del mondo stanno dalla nostra parte. Il solo fatto che sia stato elargito questo riconoscimento al popolo venezuelano nel contesto attuale invia un segnale inequivocabile a tutto il mondo sulla natura del regime e sui valori della società venezuelana, ma soprattutto sull’urgenza di intraprendere un’azione internazionale per sostenere la nostra lotta. Sono sicura che la libertà del Venezuela è ormai dietro l’angolo».
Lei ha dedicato il premio a Donald Trump, che è a capo di uno di quei governi potenti che appoggiano la lotta del popolo venezuelano. Dietro l’azione internazionale a cui fa riferimento, che cosa spera lei concretamente da Trump e dal governo degli Stati Uniti?
«Ho dedicato questo premio ai venezuelani e al presidente Trump, perché oggi egli incarna e guida l’intervento congiunto che mira a privare questa struttura criminale delle infinite fonti di entrate illegali che l’alimentano e le consentono di reprimere e perseguitare la società venezuelana. In quanto criminali, nel momento stesso in cui resteranno senza risorse, sono condannati a scomparire, ed è quello che chiediamo da anni. Sono i soldi provenienti dal narcotraffico, dall’oro estratto col sangue, dal traffico di armi e di esseri umani, dal mercato nero del petrolio e dei combustibili. Purtroppo, ci sono molti governi che hanno distolto lo sguardo e sfruttato i sistemi finanziari, compresi quelli dei paesi europei, come destinazione finale dei fondi illeciti, e che si arricchiscono a costo della fame e della morte dei venezuelani. Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno deciso di schierarsi dalla parte giusta e dichiarare che l’attuale governo venezuelano è un’organizzazione criminale e che occorre ripristinare l’ordine e la legalità, in quanto sono a rischio tanto la sicurezza nazionale che quella internazionale. Soltanto così queste organizzazioni capiranno che dovranno sgombrare il campo. L’unico responsabile di quanto sta accadendo è Nicolàs Maduro. A lui la scelta, se andarsene con trattative o senza trattative, ma dovrà sloggiare».
Effettivamente, la Casa Bianca ha ricollegato Nicolàs Maduro al Cartel de los Soles, dichiarandolo organizzazione terrorista, e al momento è in atto uno spiegamento militare nel Mar dei Caraibi che ha affondato diverse imbarcazioni del narcotraffico. Secondo lei, quali potrebbero essere i risvolti politici concreti di tale pressione?
«Questo dipenderà da Nicolás Maduro. Voglio essere molto precisa in questo: non ci sono solo legami di Maduro con il Cartel de los Soles, Nicolàs Maduro è il capo comprovato del Cartel de los Soles. E il Cartel de los Soles si è impadronito degli organi del potere pubblico e delle istituzioni in Venezuela. In molti Paesi in giro per il mondo i cartel e le reti del crimine organizzato infiltrano gli organi dei vari governi. Ma non si tratta di questo qui da noi: qui è stato il cartel ad impadronirsi dello stato e delle istituzioni, dei porti e degli aeroporti, del sistema finanziario, delle strade, degli aerei e delle imbarcazioni. Di tutto. Dei soldi dei venezuelani. È un Paese, il Venezuela, dove la gente soffre la fame, le pensioni sono meno di un dollaro al mese, i nostri bambini vanno a scuola due giorni la settimana, un terzo della nostra società si è dispersa in giro per il pianeta. Il regime ha instaurato il caos. E allora, che altro deve accadere in Venezuela prima che si chiamino le cose con il loro nome? Oggi questo è accaduto. Ed è per questo che noi tutti i venezuelani dobbiamo ringraziare l’amministrazione del presidente Trump».
Quale sarebbe per lei un limite, una linea rossa, affinchè questa strategia serva a produrre una transizione giusta e pacifica, e scongiurare una spirale militare che porti a una recrudescenza della repressione? Le sembra credibile un’incursione terrestre degli Stati Uniti in Venezuela?
«Se ci fosse la benchè minima possibilità di ritorsione da parte di Maduro verso gli Stati Uniti, essendo in grado di disporre delle forze necessarie civili e militari, non crede che l’avrebbe intrapresa? Perché Maduro sta montando questa manovra grottesca di armare una milizia popolare, che si è rivelata un fiasco totale, dicendo che vuole distribuire armi alla popolazione per difendere il paese dall’invasione? Perché non ricorre alle sue forze armate? Semplicemente perché sa che le sue forze armate, nel più profondo del loro cuore, dei loro desideri, delle loro aspirazioni, sono dalla nostra parte, dalla parte del cambiamento, della democrazia, della transizione ordinata. Il regime è nella posizione di massima debolezza. Si tradiscono, si denunciano, si nascondono, si consegnano gli uni gli altri. È un fenomeno in via di accelerazione, nel senso che i pochi che restano fedeli a Maduro si rendono conto che non esiste nessuna possibilità di tornare indietro. A Maduro hanno offerto la possibilità di negoziare la sua uscita sin dal primo giorno, per favorire una transizione con le dovute garanzie. Chi ha scelto la forza e la violenza è Nicolàs Maduro, commettendo crimini di terrorismo di stato contro l’umanità, come ha dichiarato la Commissione interamericana dei diritti umani davanti alle Nazioni Unite. Il criminale è lui, e il popolo venezuelano si è organizzato, ha resistito e sta avanzando in modo chiaro e ammirevole».
Ci sono indicatori che segnalano la presenza di spaccature e divisioni all’interno del regime? Che garanzie concrete chiederebbe alle autorità militari e civili affinchè agiscano senza regalare impunità?
«Abbiamo detto chiaramente che una transizione negoziata comporta garanzie, da discutere in corso di trattative. Queste dipenderanno dai termini elencati, dal momento dell’avvio e dalle persone che le condurranno. Pertanto, non posso esprimermi in merito, ma ribadisco che il popolo venezuelano ha fiducia in noi. Edmundo ed io siamo stati categorici. Vogliamo procedere tramite trattative che conducano a una transizione ordinata. Ma se il regime si oppone, procederemo comunque a una transizione ordinata, anche senza negoziati».
Che cosa manca per avviare subito la transizione concreta verso la democrazia in Venezuela, e quali saranno le sue prime misure in quel momento?
«Faccio un passo indietro. Quello che sta succedendo in Venezuela ha qualcosa di realmente magico. Ho ascoltato tanti che ripetono la narrativa del regime e annunciano scenari catastrofici alla caduta di Maduro, arrivando persino a confronti con i paesi del Medio Oriente, Afghanistan o Iran. Ma la società venezuelana, non esito ad affermarlo, è oggi la società più coesa dell’America Latina. È una società che non conosce spaccature religiose, regionali, razziali, né sociali o ideologiche. Il 90 percento del Paese, compresi i militari e le forze di polizia, vogliamo la stessa cosa. Non soltanto che se ne vada Maduro, ovvio, ma vogliamo le stesse cose in termini dei valori che definiscono la nostra società. Vogliamo un Paese dove tutti siano uguali davanti alla legge, dove i nostri figli abbiano opportunità di farsi strada nella vita, un Venezuela dove possiamo vivere dignitosamente da quando apriamo gli occhi alla vita fino al giorno in cui li chiudiamo, dove si rispetti la proprietà, dove si stimoli il merito. Di questo stiamo parlando, ed è qualcosa di molto forte. Ma a prescindere dall’uscita di scena di Maduro, il Venezuela è già cambiato, già sta emergendo un paese nuovo. Non posso rivelare date, nomi, azioni concrete, perché si tratta di processi terribilmente complessi, e tra l’altro in via di accelerazione. Quello che è accaduto oggi è una spinta in avanti enorme, un’iniezione di energia. La gente è felice, sta festeggiando. I venezuelani dicono “l’abbiamo vinto noi”, perché il premio appartiene a loro… la chiave del futuro sta nella gente, anche se è la variabile che viene sempre esclusa dalle analisi. Ci dicevano che avremmo fallito, che era impossibile, ma ci siamo riusciti grazie alla gente. Questa sarà una transizione ordinata, perché appartiene alla gente. La gente se ne farà carico, perché è costato moltissimo arrivare fin qui. E infine, voglio rassicurare quelli come voi, che hanno sostenuto la nostra causa, che non si è mai vista finora una generazione di venezuelani meglio preparati, come quella di oggi, per smantellare questa tragedia socialista e criminale e per costruire una società aperta, vivace, giusta, degna, luminosa e produttiva. Abbiamo i programmi, abbiamo le squadre, sappiamo esattamente dove si nascondono i rischi. Abbiamo tutte le condizioni favorevoli per trasformare il Venezuela nel vero miracolo latinoamericano».
La missione internazionale indipendente d’inchiesta dell’ONU sulla Repubblica Bolivariana del Venezuela ha documentato un’infinità di crimini contro l’umanità, incarcerazione arbitraria anche di minori, omicidi selettivi per motivi politici. Lei spera di vedere Maduro davanti al tribunale della Corte di giustizia internazionale?
«A mio avviso la corte di giustizia internazionale ha emesso le sue sentenze già da moltissimo tempo. Ha prove in abbondanza, è pienamente documentata sulla portata dei crimini contro l’umanità commessi da Maduro e dai suoi collaboratori».
Allora lei spera che…
«Diciamo che talvolta quando la giustizia arriva con eccessivo ritardo, non è più giusta».
Il chavismo ha infierito soprattutto contro i suoi attivisti: più di un centinaio sono in prigione, altri sono stati costretti all’esilio, altri ancora sono stati assassinati o sono morti in carcere. Anche sua madre è stata perseguitata. Che cosa vuole dire oggi a tutti loro?
«È vero, oggi i miei fratelli, i miei compagni di vita, tanti che considero come figli miei, sono imprigionati nelle galere della tirannide. Molti vi hanno trascorso mesi e mesi, come nel caso di Perkins [Rocha, il suo avvocato], da più di undici mesi, senza poter vedere sua moglie, che ieri lo ha rivisto per la prima volta. Ma tutti i prigionieri del regime, tutti, sono dei nostri. Sono di tutti i venezuelani. E sono i nostri eroi, dandoci una lezione di fortitudine e dignità. E specie nei momenti di stanchezza, sono loro che ci hanno dato l’esempio. Sono i nostri eroi, e posso confermarlo per aver parlato sempre con i loro familiari. A costoro io dico: “Torneranno e torneranno cresciuti. Saranno nuovi esseri umani, in tutti i sensi. Ma soprattutto spiritualmente. E saranno uomini e donne migliori. Tutti abbiamo imparato tantissimo e il Venezuela non sarà soltanto una società migliore, ma saremo tutti cittadini migliori dopo le dure vicissitudini che abbiamo attraversato”».
Ha detto che sarà la generazione più preparata della storia del Venezuela, ma molti di loro sono stati costretti ad emigrare. Oggi ci sono 8-9 milioni di venezuelani nella diaspora, seicentomila ufficialmente solo in Spagna, forse di più. Quali pressioni possono esercitare questi emigrati per far avanzare il cambiamento?
«Ha toccato un tasto chiave per me, perché quello che li lega al Venezuela è la speranza del ritorno, del ricongiungimento, della famiglia. Ricordo che nell’agosto del 2022 un uomo mi ha afferrato per il braccio e mi ha detto: “Maria Corina, tu sei la mia ultima speranza per rivedere i miei cari…” Noi siamo uniti nella stessa speranza, quelli che sono in patria con quelli che si trovano all’estero, i padri con i figli, i poveri e i ricchi, gli abitanti delle città e delle campagne. I chavistas e gli oppositori, tutti sperano la stessa cosa. Bisognerebbe cercare negli annali storici per vedere se ci sia mai stato un esodo di questa portata, dove il 30 percento della popolazione è stato costretto ad andarsene per svariati motivi, come valvola di sfogo alla tensione interna, per scardinare i movimenti politici di resistenza civica, e anche come meccanismo di destabilizzazione regionale. Pero, paradossalmente, questa meravigliosa, straordinaria diaspora venezuelana si è trasformata oggi nel nostro miglior volano di rilancio. Perché tutti questi cittadini hanno imparato, lavorato e sofferto, hanno fatto impresa. Ma a differenza di molte altre diaspore, questa ha conservato il suo cordone ombelicale ben attaccato. La maggior parte dei venezuelani all’estero sogna di tornare. Si immagini il talento che tornerà in patria, le conoscenze, la voglia di fare impresa, di valorizzare il proprio paese, sapendo bene che cosa significava averlo perso. È tragico pensare quello che accade talvolta agli esseri umani: apprezziamo ciò che amiamo quando lo abbiamo perso. Che cosa abbiamo perso noi? Abbiamo perso la libertà, la possibilità di vivere nella nostra terra, di viaggiare nel nostro paese. Per questo, non esiste una generazione di venezuelani che ami e valorizzi di più la sua famiglia, la sua terra, il suo paese e la libertà. Ed è per questo che nutro la massima fiducia in questo Venezuela che sta emergendo e che si trasformerà in un faro di luce. E non soltanto per l’Occidente».
Molti leader internazionali l’hanno felicitata, alcuni calorosamente. Ma il governo spagnolo è rimasto freddo e in silenzio. Che ne pensa?
«La realtà è che sono ancora talmente sopraffatta dall’emozione che non so dirle chi mi ha scritto finora e non vorrei sbilanciarmi. Però al di là dell’assenza di riconoscimento, ho avvertito effettivamente una certa distanza quando si trattava di condannare i reati più brutali commessi contro la democrazia, i diritti umani, le istituzioni, la costituzione, dei quali abbiamo parlato. E non ci sono giustificazioni né per il silenzio, né per una falsa equidistanza, perché tra giustizia e crimine non si può restare neutrali».
Che ruolo avrebbe potuto svolgere la Spagna?
«Oggi ci sono solo due alternative: o difendi il popolo del Venezuela, o difendi il cartel dei narcoterroristi. Non ci sono altre scelte. Pertanto spetta alla Spagna prendere posizione. Il popolo del Venezuela ha già scelto».
Quando parlava del Cartel de los Soles, del denaro di origine illecita proveniente dal narcotraffico, lei affermava che la corruzione ha fatto rotta verso i paesi europei. Si riferisce anche alla Spagna?
«Compresa la Spagna, indubbiamente. Ci sono molti prestanome e molti grandi complici del regime che hanno acquistato ingenti proprietà in Spagna per motivi ovvi: l’affinità della lingua, ecc. ecc. Ma purtroppo non è l’unico paese in Europa, né in America Latina. Per fortuna sento che il presidente Trump è deciso a far avanzare la causa della giustizia e a rendere pubbliche queste informazioni, come noi chiediamo da anni».
Il Venezuela e la Spagna sono uniti da vincoli storici, affettivi e commerciali. Quale ruolo avrebbe potuto svolgere la Spagna, se avesse voluto? Quale ruolo ha ancora la possibilità di rivestire per la libertà del Venezuela?
«Storicamente, la Spagna è stata l’interlocutore privilegiato tra Europa e America Latina per lingua, cultura, religione, storia… purtroppo abbiamo visto come negli ultimi anni la Spagna ha rinunciato a svolgere un ruolo predominante, mentre altri paesi europei hanno assunto posizioni chiare di difesa di questi valori. La Spagna ha preferito tacere. Alla fine, sarà la storia a giudicare. Al momento sono concentrata sul successo della mia causa, la liberazione del Venezuela. Oggi comincia la tappa entusiasmante di ricostruire una nazione su basi più solide, perché spetta a noi il compito e la responsabilità che ben di rado toccano a una società, quella di ricostruire da zero le sue istituzioni democratiche, affinchè siano inclusive, trasparenti, solide e durature, come nel caso del Venezuela».
Quanto è responsabile l’ex presidente Zapatero nella distanza che la Spagna ha voluto mantenere con il Venezuela?
«A mio avviso, moltissimo».
Può spiegarsi meglio?
«Preferisco non farlo, perché oggi è un giorno di festa».
Il premio verrà consegnato il 10 dicembre a Oslo. Pensa di andare a riceverlo personalmente?
«Questo lo sa solo Dio, ma stiamo facendo il possibile in questa direzione. Per il Venezuela si avvicina la luce, che si irradierà in ondate crescenti. La liberazione del Venezuela condurrà immancabilmente alla liberazione di Cuba e del Nicaragua, ho infatti assunto un impegno personale con il popolo cubano e nicaraguense. Ma ci saranno conseguenze anche per molti altri paesi, compresa la Spagna».
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11 ottobre 2025
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