Un nuovo film compare scrollando gli infiniti feed Instagram dei Millennial e della Gen Z, e non è l’acclamatissimo colosso americano con DiCaprio. È però un film sull’americanizzazione, sul dilagare dei capannoni in quella che era la culla del Rinascimento e soprattutto un film sull’amicizia ambientato e vissuto in Veneto, ghesboro.
Le città di pianura non è semplicemente un road movie come è definito ovunque, ma qualcosa di più simile al nuovo Amici miei di Monicelli che a Mark Fisher.
I tempi sono cambiati dal conte Mascetti, l’umorismo è cambiato, il cinema non ne parliamo, ma il bisogno che abbiamo di sognare in sala è sempre più grande e chiede di essere svincolato dai messaggi educativi, politici, moralistici. Per questo il film scavalca l’ostacolo della narrazione mandandola all’aria, annullando la trama, mettendo in scena l’incontro che tutti noi abbiamo letto da bambini: quello tra Pinocchio con il Gatto e la Volpe. Come Giulio, il protagonista, chiunque sulla soglia dei trent’anni si è trovato di fronte a una scelta: crescere o no? Farci traviare dai vizi e godere o diventare degli ottimi consumatori e pagatori di tasse?
Una coppia di sessantenni veneti: Doriano (Pierpaolo Capovilla) e Carlobianchi (Sergio Romano), esemplari di maschio del secolo scorso tutto scorribande, sbronze, donne e notti insonni, deve andare in aeroporto a riprendere il vecchio amico Eugenio (Andrea Pennacchi detto Genio) scappato in Argentina dopo una truffa. Tutto regolare! Abbiamo la cronaca locale piena zeppa di storie simili. Ma anche compiere un viaggio del genere è troppo, se si vive su una nuvola come Dori e Carlo. Infatti all’aeroporto non arrivano, anzi vanno in quello sbagliato tanto che son rintronati dal bere. E ridono, ridono e ridono.
Nel tragitto, che conta infiniti pit stop in localetti e bar a bere e bere e vomitare e ribere, i due bukowskiani inconcludenti e bellissimi antieroi scoprono la loro poesia interiore. A un pit stop per l’ultima bevuta, che poi non è mai l’ultima, Carlobianchi parla con un tedesco che gli dice: «Sono venuto a vivere qui prima che voi italiani roviniate questo posto del tutto». «Sei arrivato tardi», risponde il nostro, un divorziato, che fuma di nascosto, limona un maschio a metà film, vive con i genitori a sessant’anni ed è fighissimo. Poesia!
Capovilla fa da contraltare perfetto a Carlobianchi nella parte del folletto alcolico, dello spiritello furbello; si rivela un Beetlejuice padano calmo e saggio. Non parla nemmeno… gorgoglia. Dopo quattro bottiglie sbotta perché la sbronza non gli sale: «Signorina, questa birra è strrrana», detta con tre “erre” arrotondate tipiche del dialetto veneto. «Sì, è analcolica», fa la barista. E giù a ridere e bestemmiare.
Carlo e Dori sono due uomini che non si curano più di essere fuori moda, sovrappeso, alcolizzati, brutti, vestiti a caso, quasi i matti del paese, e così si imbucano in una festa di laurea di ventenni sconosciuti. Qui inizia la loro vera missione. Alla festa incontrano Giulio, un Gen Z napoletano, secchione, alcohol free, rispettoso, coltissimo, sensibilissimo et educatissimo. Con la scusa di un passaggio a casa, Carlobianchi e Dori lo tengono quasi in ostaggio per un paio di giorni, portandolo in una missione segreta e insensata che tiene incollati allo schermo un’ora e mezza. Il viaggio è il battesimo spirituale di Giulio a cui è chiesto di diventare se stesso, di diventare uomo.
Non è solo un incontro, questo, è un confronto tra la generazione dei Millennial e quella precedente dei Boomer, tra padri e figli che non si conoscono, tra figli che rimangono figli e figli che fanno i genitori dei padri, tra generazioni che hanno vissuto epoche diverse. «Come stavamo bene negli anni Novanta», dicono Dori e Carlo ché li hanno vissuti. Oggi sono dei derelitti ma si sono sputtanati decine di milioni di lire ottenuti con truffette. Soldi che un Gen Z con una formazione umanistica e coltissima non vedrà mai a meno che non nasca ricco.
E così, sul sedile posteriore di una Jaguar tanto improbabile in mano a Carlobianchi quanto scassata, queste due generazioni perdono tempo per un paio di giorni. Non fanno niente di utile. Guidano, parlano, bevono soprattutto e vanno “to the next whiskey bar” senza chiedere why, come i Doors in Alabama Song. Ci scappa anche un battesimo con una puttana in stile Certe notti di Ligabue.
Il film si perde così in un mondo notturno e senza tanti cellulari, fatto di locali non hype, non instagrammabili e sconnessi, in cui parlare al buio dei propri segreti e ascoltare musiche tristissime e americanissime ma al tempo stesso originali e tormentate come quelle di Krano (compratevi l’LP della colonna sonora, spacca).
Il tempo vola, si è giovani e un attimo dopo non lo si è più, la vita è corta. Il film è un manuale su come arrivare di fronte alla morte senza dire: che grande occasione che ho sprecato.
Giulio con i due diventa davvero amico e si sporca. Impara a non essere perfetto e insegna loro a essere più consoni, li porta pure in gita alla tomba Brion, fatta dal suo artista-architetto del cuore, che il Gatto e la Volpe chiaramente non conoscevano. «Come fate a non sapere un cazzo di dove vivete?», gli chiede. «Perché non sappiamo un cazzo ma sappiamo tutto».
Carlo e Dori sono stati giovani e lo sono tutt’ora. Prendendo sotto la propria ala Giulio diventano un po’ fratelli maggiori, adulti, padri. Finalmente idonei alla loro età.
La più bella battuta del film è di Capovilla sul finale, quando dopo l’ennesima sbronza il trio ripara a casa dei genitori di Carlobianchi. Il padre, un ometto tutto casa e capannone di ormai ottant’anni, li rimprovera: «Dovete crescere». Capovilla al suo massimo splendore gorgoglia: «Siamo troppo vecchi ormai per crescere». Ecco che una immaginaria curva di spettatori si alza esultando come su un goal di rovesciata tanto il pathos è sentito.
Il Veneto, la Puglia, la Toscana, tutte le regioni hanno questo fascino che il resto del Paese si ostina a declassare a “la provincia”. No, è una Resistenza, un movimento spontaneo e silenzioso, quello dei non inquadrati.
Ecco che l’amicizia tra maschi nasce anche con trent’anni di differenza. Ecco il bisogno che abbiamo gli uni degli altri, la speranza per uscire dalla catena di montaggio della monotonia a cui sembriamo ormai asserviti. Disertare i ruoli è la chiave. Disertare le trame, il messaggio politico manifesto a dispetto di uno filosofico ancor più radicale e lampante. Ci voleva Francesco Sossai, un regista classe 1989, per ricordarci che i film li sappiamo ancora fare, e che possiamo passare lo scettro della narrazione anche ai trentenni, che forse hanno qualcosa di meno stereotipato e incasellato dei sessantenni da dire.