di
Walter Veltroni
Intervista al cantautore: «Ho finito le parole, scrivo solo musica. Smettere di fare dischi dopo quello con Mina fu la scelta giusta. Altri si sarebbero persi, io no. Che gioia vedere i ragazzi che ritrovano l’umanità»
L’ultima volta che sono entrato nella casa genovese di Ivano Fossati e di sua moglie Mercedes era il 2019. Non c’era stato ancora il Covid che risuona, nel tempo recente che abbiamo tutti vissuto, come uno spartiacque. Ma il mondo di Fossati sembra essersi freezato in quell’anno. È del 2019 il suo ultimo album, bellissimo, con Mina.
Cosa hai fatto Ivano, in questi sei anni: «Sei andato a dormire presto», come nell’incipit della Recherche di Proust?
«Anche. Ma soprattutto ho consolidato la decisione di allontanarmi del tutto dal mio mestiere, quello che facevo prima, prima del 2019, quando componevo canzoni. Ho scritto più di 500 brani e musiche per il cinema, per il teatro… E poi si diventa grandi, si va avanti col tempo. Quell’album insieme a Mina è stato un momento perfettamente equilibrato, davvero felice. È stato un anno di lavoro esemplare ed entusiasmante. Un giorno mi è capitato di riascoltarlo, quel disco. Cosa che non faccio mai. E ho capito che era pieno di lucidità. Eravamo in uno stato di grazia, che toccava tutti. In primo luogo Mina, che è entrata in quel lavoro con tutta la sua esperienza, non solo tecnica, ma umana. E quel giorno, ascoltando le canzoni, ho pensato che fosse un bel modo di chiudere quella fase della mia vita».
Questa non è una buona notizia per chi, e siamo in tanti, ama la tua musica.
«La musica è sempre con me, anche se in una forma nuova. Mi dedico a composizioni per pianoforte che sono musica tematica. Sono brani tematici che poi hanno una variazione che destruttura il tema stesso. Nulla che spaventi, è musica popolare, come sono i temi delle colonne sonore. Altra cosa che mi appassiona e mi impegna, in questa fase, è la sperimentazione elettronica. Come non smette di attrarmi la mia chitarra elettrica e, di conseguenza, il blues».
E saranno ascoltabili queste composizioni per piano, prima o poi?
«La musica si fa sempre per gli altri, non solo per sé stessi. Farne un segreto mi sembrerebbe poco sensato e persino presuntuoso. Prima o poi può essere che le pubblicherò. Ho avuto un’offerta per eseguirle anche dal vivo, chissà. Non lo farò subito, forse fra un anno o due. Magari ne farò un disco o mi serviranno per una colonna sonora. Non intendo questa nuova fase come una dimensione intima, esclusiva. Semplicemente non ho più l’assillo del tempo. Posso procrastinare quanto voglio, prendermi tutto il tempo che voglio finché non sono convinto. Sono libero, non ho vincoli, neanche contrattuali. Io sono il mio committente e quindi mi diverto a farlo, farmi, aspettare quanto è necessario. Mi farò vivo con me stesso quando sarò soddisfatto del mio lavoro».
Quindi hai espulso le parole dalla tua creatività, solo musica?
«Quello che potevo dire l’ho detto, in tanti anni. Non so se c’è bisogno, da parte mia, di aggiungere altro. E poi ci troviamo in un’altra fase, dal punto di vista musicale, e non solo. Ci troviamo davvero in un altro tempo storico e persino psicologico… E io non so nemmeno se saprei descriverlo. Oppure lo descriverei a modo mio, ma il modo mio non è quello di oggi».
Le parole sono state a loro volta espulse dalla musica contemporanea?
«La musica è stata svuotata di contenuti, di senso. Mettere significati profondi nella musica, in fondo, non è difficile. È una questione di sintesi. Quando diventi un po’ esperto, con la sintesi riesci a dire cose abbastanza profonde in tre minuti. Ce la fai, non hai bisogno di scrivere un libro. Oggi prevale la superficialità, non si vuole più nemmeno fare lo sforzo della sintesi, non c’è neanche più lo studio per cercare di dire qualcosa di sensato. Le cose, per essere pubblicate, devono avere una ragione. È addirittura una banalità. Purtroppo io una ragione non la trovo più, in questa massa informe di suoni che esce dai cellulari e che anche i ragazzi consumano distrattamente, più per dovere generazionale che per passione. I successi, tra virgolette, di oggi, durano una settimana. La musica è cambiata, è stata girata una pagina. E’ una cosa che va presa con serenità, con consapevolezza. Non è un problema».
Forse è quello che pensavano i nostri genitori di fronte ai Beatles o a Jimi Hendrix. O forse no…
«La nostra generazione è quella che ha avuto la finestra più lunga di sorprese, di meraviglie. A partire dalla fine degli anni ‘50 con il rock’n’roll, fino ad arrivare al primo decennio del nuovo millennio. La nostra generazione ha fatto tutto quello che poteva e voleva, con la musica. Ancora oggi si ascoltano quelle canzoni che si sono fatte storia e spesso certi ragazzi conoscono meglio la musica di sessant’anni fa che quella di oggi. Non è che il rap sia un male assoluto, anzi… Ci sono cose pregevoli. Però i suoi cascami sono deleteri: oggi si canta dentro all’autotune e hanno tutti la stessa voce metallica, cibernetica. Pensa a quella di Dalla o di Battisti. Erano uniche, riconoscibili tra mille. Ma hai ragione: non possiamo ragionare come i nostri vecchi quando ascoltavano le prime canzoni dei Rolling Stones. Non voglio diventare così, voglio capire. Però capire e comprendere è una cosa, farmela piacere per forza è un’altra».
Nel 2019 mi dicesti che la fase che si apriva nella della tua vita si poteva definire così: «Tenere una parte di vita per guardare sé stessi». È quello che ti è accaduto in questi sei anni?
«Probabilmente sto meglio con me stesso oggi di quanto fosse trent’anni fa. Ma è evidente che, diventando grande, guardo me stesso, il mio comportamento, cerco di capire se ho fatto bene, se le scelte compiute, che sono state difficili, hanno prodotto dei risultati buoni o cattivi, per me o per gli altri. Voglio essere sincero: quella benedetta scelta di smettere con il mio mestiere non è una cosa che possono fare tutti, non potrei consigliarla ad altri, perché può essere un trauma che non si supera, un vuoto. Nel mio caso non lo è stato, mi ero preparato bene o forse avevo il carattere adatto a farlo. È stata la scoperta di spazi di serenità, di vicinanza alla mia famiglia ma anche di lavoro e di nuove forme di creatività. Molti miei colleghi, scesi dal palco, rischierebbero di perdersi. Io invece, quando cantavo, ho difeso i miei spazi, sono stato gelosissimo della mia vita privata, ho coltivato le mie curiosità e tante cose da cercare ancora. Per questo non ho avuto paura di salire su quella zattera e solcare un mare sconosciuto».
Anche il tuo sito è fermo al 2019. Dopo l’album con Mina sembra sia stato abbandonato, come una casa senza persone.
«Ma sì, appartiene all’altra fase della mia vita. Ora cosa c’è da aggiungere? Io sui social non ci sono. So che è un errore, ma un errore consapevole, perché so bene che ora lì pulsa buona parte dell’opinione pubblica. Ma non ci riesco. E non ci riesco perché non mi appassiona. Meglio, mi spaventa. Mi spaventa perché non mi fido, lo trovo uno spazio estremamente sleale».
Voglia di scrivere una canzone non ti è mai più venuta?
«Non è la voglia. Il desiderio, se uno vuole, lo trova, l’ispirazione la trova. No è qualcosa di più razionale. È una scelta. Questa estate una mattina, ero a casa solo con Liù, la mia adorata Golden retriever. Mi sono svegliato, sono sceso dove ho il pianoforte e mi sono messo a suonare, erano le cinque del mattino. Sentivo che era uno di quei momenti in cui avverti come una specie di ispirazione, una sorta di stato di grazia. Ho pensato che avrei registrato qualcosa di bello, per queste composizioni pianistiche che ora mi appassionano. Non mi sono accorto delle ore che passavano ma ho sentito fame, a un certo punto, e mi sono reso conto che erano le due del pomeriggio. Il giorno dopo ho riascoltato la registrazione e l’ho buttata via. Non c’era niente di buono, assolutamente niente, ma ho pensato che quel tempo era stato felice, era stato un momento di ispirazione. Ho dato importanza più a quel momento di grazia che non al risultato».
Nel 2019 mi dicesti che ti spaventava «l’ossessione di essere attuali». È peggiorata questa sindrome?
«Sembra ormai che esista solo un tempo della vita, il presente. Cerco di non chiudermi nel mio mondo: guardo, ascolto, parlo con la gente, mi informo. Però vedo le cose dal mio punto di osservazione. Non pretendo più, magari l’ho fatto in passato, di avere un pensiero attuale. Ho un pensiero mio, che è quello, e lo riconosco con tutti i suoi errori. È come accettarsi, semplicemente accettarsi nel proprio divenire. Io non parlo come parlavo quaranta anni fa, non penso come pensavo venti anni fa. Sono una persona diversa, non mi aspetto più di aprire bocca e che la gente mi dia ragione. Anzi, se qualcuno ha qualcosa da insegnarmi sono più propenso oggi a essere aperto alle idee degli altri di quanto lo fossi in passato. Nulla di più controvento, di più inattuale, quasi blasfemo in questo tempo».
A proposito di tempo, è inevitabile parlare della tua e della mia canzone preferita. Come nacque «C’è tempo»?
«È una domanda difficilissima, perché non lo so. Mi ricordo che non piacque a nessuno. Ecco, questa è la cosa che mi è rimasta più impressa. La feci ascoltare per primi ai miei musicisti. Eravamo tutti insieme e, mentre la ascoltavamo, loro si distraevano e ognuno parlava d’altro. E allora ho pensato: “Accidenti, a me piaceva, mi sembrava una buona canzone, forse mi sto sbagliando.”. Forse la canzone era giusta, ma il momento no. Capita».
A proposito di autotune, questa società sta smarrendo la differenza tra la realtà e la manipolazione, tra il vero e il falso?
«È la regola di oggi. Per esempio negare l’evidenza, negare la verità, sovvertire la verità è diventata la regola alla quale bisogna, con tutte le forze che abbiamo, non assuefarci. Perché se caschiamo in questa rete è veramente la fine della coscienza, è la fine del pensiero. E poi, a cascata, diventa la fine del diritto e l’inizio di tutti gli orrori che vediamo. La manipolazione sta prendendo il sopravvento su tutto. Non è un caso che i grandi potentati o i super miliardari si dedichino a quel settore, perché probabilmente è quello che paga di più. Paga non solo in denaro. È un progetto di cambiamento della società. È l’intelligenza artificiale del pensiero».
«Anche qui ci vuole il fisico per resistere. Ma la gente ce l’ha. In questi giorni di piazze piene mi sono reso conto che la gente ce l’ha, il fisico. Questo discernimento, questa forza, questa rottura del silenzio, questa capacità di prendere decisioni che quelli che sarebbero preposti non prendono, mi ha emozionato. La lucidità c’è, c’è tutta la lucidità del mondo. È ancora lì. Io per un periodo lunghissimo mi sono convinto che fossimo tutti anestetizzati e che non ci sarebbe stata più speranza di vedere reazione nelle persone. E invece, finalmente, mi è sembrato di respirare. La gente c’è, il pensiero c’è. “E pensare che c’era il pensiero”, diceva Gaber. C’è ancora, limpido, e si è trasferito in questi ragazzi. Io e mia moglie Mercedes siamo andati a portare un carico di aiuti per la Palestina a Music for Peace, qui a Genova. E lì ho cominciato a rendermi conto, a sorridere… Quando ho visto le signore anziane con la sportina che avevano fatto una spesa magari di pochi euro, ma erano in fila, con l’allegria di chi fa del bene. E i ragazzi che raccoglievano e organizzavano i pacchi… In quel momento ho detto sono loro, sono loro, quelli che vincono».
Sei stato alla grande manifestazione di Genova?
«Sì, non si vedeva nulla di simile da tempo. Quando ho sentito i portuali parlare in quel modo e ho visto le facce di chi c’era, facce normali di persone normali, mi sono detto: ma allora non è tutto perduto, allora ci siamo, ci siamo ancora… In quello che sta accadendo c’è una sostanza umana che non ha neanche più molto di politico. È solo umanità. Quello che pensavamo di aver perduto. È qualcosa di sganciato dalle logiche fredde, spesso ciniche, della politica, dei partiti. La gente quando deve dimostrare che ha capito una cosa te lo manifesta con una forza che ti potrebbe sopraffare. Non è un pensiero che rinasce. Perché non rinasce, c’è sempre stato. Ma aveva paura di esserci e ora si libera. E’ la coscienza, più che pensiero. È la coscienza che esce allo scoperto. In questo momento vedere i palestinesi festeggiare il cessate il fuoco, sia pure con le molte incognite, fa bene al cuore. Tutti speriamo che in nessun modo vengano delusi un’altra volta».
Ci circonda l’orrore, il 7 ottobre e la mattanza di Gaza con ventimila bambini morti. Sembra un tunnel senza uscite.
«Il giorno che quei capi militari israeliani dissero ”adesso apriremo le porte dell’inferno” ho pensato che quella fosse non solo una dichiarazione di inaudita malvagità, ma anche di grande ottusità. Perché le porte dell’inferno le hanno aperte per i palestinesi, ma, in fondo, le hanno aperte anche per loro. Nei prossimi decenni, la pioggia delle immagini di questo genocidio ricadrà su Israele. La condanna che Netanyahu ha imposto al popolo di Israele, il popolo che ha sofferto l’orrore indicibile della Shoah, è quella all’isolamento morale. E quel tipo di isolamento morale durerà. Li attendono cent’anni di solitudine. E quello l’hanno provocato loro. Hanno condannato il loro stesso Paese».
«L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa» diceva Roosevelt.
«Io penso spesso, magari con un po’ di superficialità e ora di vergogna, che quando avevo 16 anni le più grandi preoccupazioni erano quelle di scegliere tra i Beatles e i Rolling Stones. Ora gli adolescenti a 16 anni vanno in analisi. Ne conosciamo anche personalmente, figli di nostri amici. Hanno bisogno di aiuto psicologico perché sono pieni di paure. Molte reali, altre indotte dall’universo solitario del cellulare. Ma questi ragazzi sono passati dentro a troppi tunnel: prima il Covid e poi queste guerre atroci di cui non avevano sentito parlare. Noi almeno avevamo un ricordo che ci era stato passato dai genitori. Io la guerra non l’ho vista, ma i miei e mia mamma me l’hanno descritta così bene, che mi sembrava di esserci stato. E l’orrore c’era anche lì. Eccome se c’era. Questi ragazzi, che sono nati dopo, hanno vissuto in pace e in libertà. Ma poi sono stati sopraffatti da un mondo difficilissimo, dove molte certezze si vanno sgretolando».
Cosa ti sembra stiamo perdendo più velocemente?
«Il senso del diritto. Quello che era stato costruito in millenni da Atene, o dall’antica Roma. Ci sono voluti duemila anni per costruire quel tipo di diritto, diritto delle nazioni, dei singoli, diritto internazionale. In fondo cosa è la politica di Trump verso gli immigrati o l’assalto alla Flotilla in acque internazionali, se non la spietata dimostrazione che ora non conta nulla se non la volontà del potente di turno? Non il diritto, la forza. Non il pensiero, le armi. Noi ci siamo appoggiati e ci siamo fidati del diritto per decenni e decenni della nostra vita, dandolo per scontato. Ora invece sembra normale eliminare quello che non ti piace. Quello che non voglio vedermi davanti agli occhi va rimosso. In barba al diritto, la nostra legge comune, quello che ci tiene insieme».
Quando ci siamo visti nel 2019, tu mi hai parlato a lungo di tua madre.
«Mia mamma se ne è andata nel 2022. C’era ancora il Covid. Quando è morta non me l’hanno lasciata vedere. L’hanno portata di urgenza in un pronto soccorso e poi ci hanno mandati via. Ho un peso sulla coscienza gigantesco perché penso avrei dovuto fare l’impossibile per rimanere con lei e invece mi hanno mandato via con tutte le forze. C’era Mercedes, c’era mio figlio Claudio, eravamo tutti lì con lei e lei stava morendo. Ci hanno mandati via e poi al mattino alle otto ci hanno telefonato per dire che non c’era più. Mia madre è con me praticamente ogni giorno. Mi dice come vanno fatte le cose o come le farebbe lei. È stata una grandissima guida per me e per mio figlio e in pratica non ci ha mai lasciati. È stata una grande sofferenza. Ho imparato che non esiste un momento e non esiste un’età giusta per il dolore».
Quindi per noi, orfani delle tue canzoni, non c’è speranza?
«Ogni tanto mi contattano degli artisti, chiedendomi una canzone e io rispondo sempre: “Ce ne sono a decine, di canzoni mie, rimaste in ombra, brani che pochi conoscono. La garanzia che le conoscano in pochi è perché le ho cantate io. E quindi potete prendervi quelle. Non serve che io scriva altro. È un materiale infinito, che potete reinterpretare a vostro piacimento e farne quel che volete».
Comunque, non si può mai dire. Siamo sotto il cielo, che cambia. Per fortuna, lo vediamo, cambia ogni giorno.
12 ottobre 2025 ( modifica il 12 ottobre 2025 | 13:10)
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