C’è una categoria di misto punk-metal che ti offre una spremuta di passione incondizionata, a prescindere da ciò che tu sia disposto a darle in cambio. Quel sound alla Motörhead, puro e ottuso, immutabile e ostinato. Parliamo di quelle discografie a cui non frega nulla se preferisci l’album d’esordio o se stai lì a riflettere su quale sia quello sottovalutato. Discografie che, se fossero persone fisiche, sputerebbero in faccia a chi usa il termine sophomore recensendo il loro secondo lavoro e cose del genere.

L’intero bagaglio sonoro dei Mondo Generator l’ho sempre percepito così: come un muratore nerboruto che svolge il suo incarico a prescindere dalle condizioni atmosferiche, dai pensionati con le braccia conserte dietro la schiena a osservare e da quanto altro. Senza fronzoli, arrivano sul palco, scansano i microfoni ai lati della batteria perché tanto la sentirai uguale, ti sparano la loro dose massiccia di distorsioni, scendono dal palco e domani sarà nuovamente così per venti date di fila, senza sosta. Parliamo di canzoni nate principalmente per funzionare dal vivo, lerce delle loro imperfezioni, bagnate dalla tequila che ogni tanto gli interpreti agitano tra una canzone e l’altra, offrendola al pubblico con generosità. Sarà forse questo l’ingrediente segreto della voce di Oliveri, che anche a cinquant’anni resta carta vetrata che si infrange ripetutamente contro il microfono. Citando il buon Mario, può “esse’ fero” ma può anche essere piuma, quando Nick scende dal palco ed è molto disponibile a incontrare fan e i numerosi conoscenti con cui ha stretto legami nel corso della sua longeva carriera.

I Mondo Generator sono questo da quasi trent’anni, un progetto parallelo che non di rado ha funzionato come incubatrice di alcuni classici dei Queens of the Stone Age e che ha visto un numero incredibile di ospiti della cricca di Rancho de la Luna nel corso degli anni. Oggi Nick Oliveri balla principalmente per conto suo, incide con la nostrana Heavy Psych Sounds che gli permette di fare il cazzo che gli pare, come avrebbe sempre meritato. Non si denuda più come un novello GG Allin, non pretende di sbarcare il lunario, ma confeziona ancora un sound che ti fa muovere culo e gomiti che è un piacere. Invecchiando meglio di altre realtà limitrofe che però si sono sapute vendere meglio nei decenni passati, come per esempio i Turbonegro.

La cosiddetta “Sindrome da Paul Di’Anno” è sempre dietro l’angolo, ovvero è facile che il pubblico si trasformi in un tornado nostalgico durante i classiconi di QOTSA e Kyuss, dal terzo pezzo con Supa Scoopa and Mighty Scoop fino alla chiusura della immancabile You Think I Ain’t Worth a Dollar, but I Feel Like a Millionaire, ma non sembra comunque annoiarsi mai quando tira fuori dal cilindro una chicca come Love Has Passed Me By (dal più “umano” Wretch) o le piccole schegge vigorose prese dai vari Fuck It, Cocaine Rodeo, We Stand Against You.

Alla divertente serata si addiziona anche la convinzione che i Komatsu siano una delle migliori spalle che abbiano mai avuto: la coriacea e monolitica realtà olandese attiva da una quindicina d’anni ha anche già collaborato attivamente con il bassista in passato. Nonostante io non sia riuscito ad ascoltare l’intero loro set, a causa dell’intervista a Nick Oliveri che stavo realizzando e che leggerete prossimamente, vi posso assicurare che i pezzi (in prevalenza presi dal nuovo A Breakfast for Champions) erano solidi e ruggenti. Considerando i tempi che corrono, una doppietta di formazioni di questo calibro valevano di più del prezzo del biglietto (una ventina di euro). (Federico Francesco Falco)

(L’immagine in apertura è di Mats Photography)