di Manuela Croci

Il centrocampista dell’Inter si racconta in un libro. L’orgoglio di essere armeno, il rapporto con gli allenatori, l’incontro con la moglie («Ci parlavamo sui social») e quella richiesta del padre prima di morire: «Devi essere una brava persona»

«Ho trascorso i primi sei anni della mia vita in Francia e lì ci sono quasi tutti i ricordi della mia infanzia: papà che usciva con il borsone per andare agli allenamenti, io che volevo sempre seguirlo. Era il mio idolo e quel campo in erba era una grande attrazione. Difficilmente riusciva a portarmi con lui perché ci voleva qualcuno che si occupasse di me mentre era impegnato con i compagni; ma quelle due, tre volte l’anno in cui lo accompagnavo al centro sportivo, era davvero una festa».

Così Henrikh Mkhitaryan, 36 anni, nato a Erevan, Armenia. In Italia dal 2019, ha giocato nella Roma fino al 2022, per poi passare all’Inter dove è diventato titolare inamovibile sotto la guida di Simone Inzaghi prima e di Christian Chivu oggi. Laureato in Management dello Sport e in economia, parla cinque lingue. Il suo talento nasce e si fortifica nel mito di papà Hamlet, attaccante morto a soli 34 anni per un tumore. «Mi ripeteva la frase attorno a cui ruota la mia intera esistenza: “Henrikh, prima di tutto dovrai essere una brava persona. Ricordalo”». E proprio da quelle parole inizia il libro La mia vita sempre al centro (Cairo) che racconta la vita di “Miki”, nomignolo scelto dal mister Jurgen Klopp che per quel cognome difficile da pronunciare gli diceva «sei una collezione di consonanti».

Riavvolgiamo il nastro: dopo la Francia, l’Armenia.
«Quando papà si è ammalato siamo tornati nel nostro Paese. Lì c’erano gli zii che potevano aiutarci e i miei cugini con cui trascorrevo tanto tempo. Ero felice. Non avevo idea di quello che stava accadendo: quando hai 5 o 6 anni non capisci bene e mia madre, per proteggermi, non mi aveva detto molto sulla malattia di papà. Ricordo che ogni tanto io e mia sorella Monika andavamo all’ospedale per incontrarlo e quando lui veniva a casa per qualche giorno era stanco, senza forze. Io non capivo, vedevo solo che lui era vicino a me e questo mi bastava. Non era importante come trascorrevamo il tempo insieme, a me bastava la sua presenza. Era il papà migliore del mondo».

«L’ARMENIA USCIVA DALLA GUERRA: AL CENTRO DI ALLENAMENTO NON C’ERA LA DOCCIA, MANCAVA L’ELETTRICITÀ E L’ACQUA A CASA ERA RAZIONATA»

Il ricordo più bello che ha di lui?
«Giocava sempre con me e mia sorella. Quando cresci senza padre, qualcosa manca nella tua vita. Quanto vorrei ancora adesso averlo qui per confrontarmi, chiacchierare, ricevere un consiglio… per fortuna al mio fianco c’è sempre stato mio zio, il fratello di mamma».

Cosa desiderava suo padre per lei?
«Che diventassi una brava persona. Una cosa semplice, ma che credo sia il sogno di qualsiasi genitore. Lo dico sempre anche ai miei figli. Poi quello che faranno nella vita sarà una loro scelta e io sarò comunque al loro fianco».

La prima volta che ha calciato un pallone?
«In casa. Volevo imitare papà».

E su un campo vero?
«Il primo allenamento è stato in Francia. Ero felicissimo che papà mi guardasse da bordo campo. Ma lui non stava già bene e la volta successiva mi accompagnò mamma: iniziai a piangere e decisi di non allenarmi».

Quando ha ricominciato?
«Subito dopo la morte di mio padre c’è stato un rifiuto totale del pallone. Poi qualcosa è cambiato e ho chiesto a mamma di poter riprendere».

Eravate in Armenia: nel libro scrive “La povertà governava il Paese”.
«Era un luogo difficile, usciva dalla guerra contro l’Azerbaigian: per alcune ore al giorno non c’era energia elettrica, al centro di allenamento non c’era la doccia e talvolta anche arrivati a casa bisognava aspettare per lavarsi perché l’acqua era razionata».

Mamma Marina ha insistito sull’importanza della scuola: che studente è stato?
«Non perfetto, ma bravo. A un certo punto ho iniziato a mollare e ricordo che una sera mia madre tornata dal lavoro mi ha chiesto se avevo fatto i compiti. “Certo”, ho risposto. Ma lei ha controllato e mi ha tenuto sveglio fino a notte fonda per finire quello che mancava e portarmi avanti con i lavori dei giorni successivi. Da lì ho iniziato a prendere la scuola più seriamente. Fino ad allora era stato solo un dovere, poi qualcosa nella mia testa è cambiato».

Ha due lauree.
«Dovevo farlo. Il calcio non è per sempre, bisogna pensare a cosa fare una volta appesi gli scarpini».

Parla cinque lingue: armeno, russo, francese, inglese e italiano.
«Quando ero al Dortmund ho imparato anche il tedesco, ma è difficile e se non lo parli, lo dimentichi. Mi spiace molto».

In che lingua pensa?
«Penso nella lingua che parlo in quel momento. Ogni tanto è difficile perché scordo le parole, ma è bello dialogare con persone diverse».

Che lingua parlate in casa?
«Con i miei bimbi e mia moglie, armeno».

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«AMO LA MUSICA ITALIANA: BOCELLI, PAVAROTTI, PAUSINI… AL MIO MATRIMONIO C’ERANO AL BANO E ANCHE MINO RAJOLA, UN SECONDO PADRE»

Nel libro racconta pochissimo di Isabella Vardanian: che donna è?
«Non posso dire brutte cose, poi le legge e a casa…(ride). Mi sopporta tantissimo, ho pensato subito che sarebbe diventata mia moglie».

Come vi siete conosciuti?
«Un amico mi parlava sempre di lei, diceva che dovevamo incontrarci. Allora giocavo a Londra e tornavo in Armenia solo per le vacanze. Abbiamo iniziato a scriverci sui social e quando ci siamo incontrati, è stato amore».

Al vostro matrimonio c’era Al Bano.
«Una sorpresa, era un regalo dello zio di mia moglie. Volevamo delle nozze intime con familiari e pochi amici. Abbiamo scartato l’ipotesi di sposarci in Armenia perché da noi al matrimonio si invitano tutti. Davvero tutti. La scelta era tra Venezia, con l’isola di San Lazzaro degli Armeni, Mosca, Londra o Parigi. Abbiamo scelto la città italiana, simbolo dell’amore».

Le piace la nostra musica?
«Molto. Ascolto Bocelli, Pavarotti, Pausini, Al Bano, Toto Cutugno, i Ricchi e Poveri».

Ha due figli, Hamlet nato nel 2020 e Liliya del 2023, che papà è?
«Sto provando a fare tutto quello che papà ha fatto con me in sette anni e quello che immagino avrebbe fatto dopo. Cerco di stargli vicino, dargli consigli. Hanno un’infanzia molto diversa dalla nostra, i social hanno modificato molto i rapporti: provo a spiegare loro l’importanza di trascorrere il tempo a giocare insieme, senza avere il cellulare come filtro».

Gli sta trasmettendo anche la passione per il calcio?
«Hamlet ora è pazzo per il pallone. Ma deciderà lui cosa fare».

Chi è stato per lei Mino Raiola?
«Un secondo padre. Ha sempre pensato alla mia felicità. Mi diceva: se sei felice tu lo sono anche io, se non lo sei dobbiamo cercare una squadra che ti faccia tornare il sorriso. Molti hanno un’opinione diversa di lui, ma quando lo conoscevi diventava uno di famiglia».

Cosa rappresenta per lei l’Armenia?
«Sono orgoglioso e fiero del mio Paese. Ha tanta storia, cibo buonissimo, un popolo meraviglioso. Quando mi chiedono, inizio a parlare e non mi fermo più».

Pensa a un futuro in politica?
«Per ora sono focalizzato sul calcio. Quando smetterò, vedremo. Il mio primo impegno sarà dedicarmi ancora di più ai miei figli per vederli crescere bene».

Ha giocato in Ucraina, Brasile, Gran Bretagna, Germania, Italia: il luogo a cui è più legato?
«L’Armenia (sorride). In tutti questi Paesi mi sono trovato bene, ho bei ricordi personali e sportivi. Ma casa, è casa. Se devo dire il posto dove mi sono adattato più velocemente, scelgo l’Italia. C’è tanta storia, siamo molto affini. Questo è il mio settimo anno qui, mai mi ero fermano più di 3-4 anni nello stesso posto».

«IL PIU’ FORTE CON CUI HO GIOCATO? IBRAHIMOVIC. QUANDO TI ALLENI CON LUI HAI SOLO DA IMPARARE, LUI VUOLE SEMPRE E SOLO VINCERE»

Cos’è il calcio per Henrikh Mkhitaryan?
«Tutta la mia vita. Mi diverte e mi rende felice: così era quando ho iniziato e così è oggi».

Un aggettivo per ogni allenatore: Arsène Wenger?
«Elegante».

Jurgen Klopp?
«Matto, in senso positivo».

Thomas Tuchel?
«Strategico».

Paulo Fonseca?
«Un maestro di calcio».

José Mourinho?
«Vincente».

Simone Inzaghi?
«È il Demone».

Cristian Chivu?
«Ci siamo appena conosciuti, sicuramente è un uomo intelligente».

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Il più forte con cui ha giocato?
«Direi Ibrahimovic. Siamo stati insieme al Manchester United, quando ti alleni con lui hai solo da imparare: lotta sempre, vuole vincere ogni contrasto, ogni partita ufficiale, ogni partitella. Ci mette l’anima. Ti dà tanto, ma anche tu devi dare tantissimo a lui».

Il gol più importante della sua carriera?
«Quello della finale di Europa League 2016-2017 contro l’Ajax. La mia rete e quella di Pogba hanno portato la coppa a Manchester».

Cosa ha significato vincere la seconda stella nel derby contro il Milan?
«Già conquistare la seconda stella è stato incredibile, abbiamo scritto la storia. A febbraio avevamo iniziato a guardare il calendario e dirci: se diventassimo campioni proprio nel derby giocato in casa dai rossoneri… Il destino è stato incredibile, avevamo tanta fiducia. Siamo entrati in campo per vincere. I festeggiamenti poi… per fare da San Siro al Duomo ci sono volute più di otto ore. Un po’ stancante, ma sarei pronto a rifare quel percorso. È un’emozione che rimarrà per sempre».

Da una gioia a una delusione, la finale di Champions contro il PSG. Ha scritto: “Non rivedrò quella partita neppure sotto tortura”. Cosa è successo?
«Non so spiegarlo, non ho mai voluto ripensare a quella sera. È il passato, non puoi cambiare niente. Meglio alzare la testa e andare avanti lavorando duro. Era la partita della vita e l’abbiamo persa in un modo in cui non vorresti mai perdere. Ma il calcio è così: uno vince, l’altro no. Bisogna accettarlo».

Ha scritto di aver ricevuto anche lei un’offerta dall’Arabia Saudita nel 2024, e di aver risposto “Io sono interista”. Chiuderà qui la sua carriera?
«Vorrei, ma non dipende solo da me. Il mio desiderio è giocare il più a lungo possibile, alla fine della stagione ci vedremo e ne parleremo».

CHI È

La vita
Nato il 21 gennaio 1989 a Erevan, Armenia, ha una sorella più grande Monika. Con i genitori Marina Taschyan e Helmet ha vissuto l’infanzia in Francia, dove il padre giocava come attaccante nel Valence e nell’Issy. Il 17 giugno 2019 sposa a San Lazzaro degli Armeni, Venezia, Isabella Vardanian da cui ha due figli: Hamlet, nato nel 2020, e Liliya, del 2023

La carriera
Ha iniziato nella squadra armena P’yownik per poi passare in Ucraina al Metalurh Donec’k e al Sachtar; quindi in Germania al Borussia Dortmund e in Gran Bretagna al Manchester United e all’Arsenal. È arrivato in Italia nel 2019 per giocare nella Roma, squadra con cui ha vinto la Conference League nel 2022. Passato all’Inter, ha vinto due Supercoppe italiane (2022 e 2023), una Coppa Italia (2023) e il Campionato che nel 2024 ha portato ai nerazzurri la seconda stella. Ha vestito 95 volte la maglia della Nazionale armena.

12 ottobre 2025 ( modifica il 12 ottobre 2025 | 17:29)