voto
9.0
- Band:
TYGERS OF PAN TANG - Durata: 00:34:27
- Disponibile dal: 10/04/1981
- Etichetta:
- MCA Records
Ci sono storie che sembrano scritte da un destino beffardo che pare divertirsi a mescolare, nella vita di alcune band, intuizioni geniali, errori madornali e colpi di fortuna, e ci sono dischi che, a distanza di decenni, riescono ancora a evocare lo Zeitgeist di un’epoca intera. Raramente le band che appartengono alla prima categoria riescono a realizzare opere destinate alla seconda, ma è quanto accaduto, nell’arco di un biennio di fuoco, ai Tygers Of Pan Tang, proprio mentre l’heavy metal appena nato plasmava la sua mutevole identità.
Nell’Inghilterra del Nord, sulla costa del Tyne and Wear a pochi chilometri da Newcastle, sorge una cittadina di mare chiamata Whitley Bay, che grazie a un ventenne nato in Ghana da padre medico, e trasferitosi qui ancora infante, sarebbe stata destinata a ritagliarsi un posto nella mappa dell’heavy metal britannico. Il ragazzo in questione, un giovane baffuto di nome Robb Weir, nel 1977 mette in moto i Tygers Of Pan Tang, assecondando, nel fiore dei suoi anni, l’impulso tanto ingenuo quanto visionario di contribuire con la sua chitarra a plasmare la voce del nascente heavy metal. Il nome, poi, era tutto un programma: è il celebre scrittore Michael Moorcock a stuzzicare i sogni di gloria del giovane chitarrista menzionando, nel suo romanzo “Stormbringer”, le tigri di pietra poste a guardia delle montagne immaginarie del Pan Tang.
Dopo un anno e poco più di una trentina di concerti con un certo Mark Butcher alla voce, presto scomparso dai radar e sostituito dall’ugola ruvida di Jess Cox, la Neat Records (che pubblicherà negli anni a seguire i primi album dei Venom) si interessa a loro dando alla luce il sette pollici “Don’t Touch Me There”, con tre brani nello stile di AC/DC, Ted Nugent e UFO, in cui già si nota l’urgenza stradaiola e il piglio ‘do it yourself‘ che l’hard rock di fine anni Settanta mutuava dal punk. Questo era il sound che in quei giorni agitava Londra, proveniente perlopiù dal Bandwagon Heavy Metal Soundhouse, un locale che ospitava piccoli concerti per qualche centinaio di fedelissimi che si riunivano per ascoltare gruppi emergenti e i dischi selezionati dal presentatore e DJ radiofonico Neal Kay. Fortuna volle che l’8 maggio 1979 il giornalista britannico Geoff Barton assistesse a un concerto degli Iron Maiden, con Samson e Angel Witch di supporto. La recensione di quello show, pubblicata sul numero successivo del settimanale Sounds, conteneva il primo riferimento stampato noto alla New Wave of British Heavy Metal. Proprio Barton — che di lì a poco sarebbe diventato il fondatore e direttore della leggendaria rivista Kerrang! — nel dicembre dello stesso anno inserì i Tygers of Pan Tang in un articolo su Sounds intitolato “One Over The Eight – The New Wave of British Heavy Metal Update”. In quelle pagine, dove i primi vagiti della NWOBHM trovarono i primi sogni di gloria, Barton posizionò i Tygers accanto a Def Leppard, Iron Maiden e Diamond Head tra le band più promettenti del momento, alimentando il culto intorno alla formazione e attirando l’attenzione della MCA Records. Fu così che dopo il singolo “Rock ’N’ Roll Man / Alright On The Night”, arrivò nel 1980 l’album di debutto “Wild Cat”, che esordì direttamente alla posizione numero 18 della classifica inglese, accompagnato da un’apparizione al Friday Rock Show di Tommy Vance e da un’esibizione al Reading Festival nella giornata con i Whitesnake headliner, allora in uno stato di grazia assoluto. Con i Tygers ormai lanciati, il management decise di spingere verso un cantante più adatto ad un futuro che immaginava radioso: Jess Cox venne allontanato, aprendo la strada alla svolta che avrebbe condotto a “Spellbound”.
La scelta del cantante cadde su John Deverill, che, insieme all’ingresso di John Sykes alla chitarra (proveniente dagli Streetfighter, trio in cui già metteva in mostra doti sovrumane di chitarrista e cantante, lasciando trapelare quella passione viscerale per i Thin Lizzy che segnerà tutta la sua carriera), preluse al capolavoro. Quando la MCA dà alle stampe “Spellbound”, nell’aprile del 1981, la trasformazione della band è evidente. La voce di Deverill risulta proverbiale sin dalle prime note di “Gangland”: potente, carismatica, capace di unire lirismo e ferocia in un’unica emissione, quasi a prefigurare un’idea di canto heavy metal che allora non esisteva ancora. Nell’81 il mondo non aveva ancora conosciuto gli Iron Maiden con Bruce Dickinson — “The Number of the Beast” sarebbe arrivato solo l’anno dopo — mentre Bruce Bruce (così si faceva chiamare ai tempi in cui prestava la sua voce ai Samson) non era ancora assurto agli allori planetari.
In quell’interregno, prima che la NWOBHM trovasse il suo volto definitivo, la voce di Deverill rappresentava una delle espressioni più alte e mature di quella stagione: elegante, teatrale e al tempo stesso ferina, un perfetto equilibrio tra istinto e disciplina, unione ideale fra l’hard rock vigoroso e teatrale dei Rainbow e quello epico e trionfante degli Iron Maiden degli anni a venire. L’altro nuovo arrivato, John Sykes, era però il vero pezzo da novanta. Con l’atteggiamento di chi sa già dove vuole arrivare, l’appena ventiduenne Sykes apparve già dotato di una sensibilità melodica e di una precisione che ancora oggi fanno tremare i polsi di chiunque si cimenti con le sue geometrie chitarristiche. Il suo guitar work, in tutti i brani, nessuno escluso, è un’antologia dell’hard and heavy, divorando gli spazi sonori, padroneggiando ritmiche, assoli e anticipando quella rara combinazione di virtuosismo caldo e controllo ritmico che troverà compimento in album dove suonerà in futuro come “Thunder And Lightning” dei Thin Lizzy, negli anni d’oro dei Whitesnake e nell’avventura hard rock dei Blue Murder.
“Spellbound” è un album di fuoco, in cui la band sembra vivere dentro il mondo che aveva contribuito a creare con “Wild Cat”, ma con una nuova consapevolezza. Le canzoni sono tutte straordinarie anche perché, ricordiamolo, oltre al talento cristallino di John Sykes c’è il talento compositivo unico e riconoscibile di Rob Weir, capace di scrivere riff seminali come quello di “Take It” e chorus dalle aperture memorabili. Se “Gangland”, con il suo riff tagliente e il ritornello da pugno alzato ha l’onore di aprire le danze, brani come “Hellbound“, “Silver And Gold” e “Blackjack” immortalano alcuni dei giri di chitarra più semplici ed iconici della NWOBHM, mentre “Mirror” introduce con disinvoltura la dimensione della power ballad senza mai scadere nel manierismo. In fondo alla scaletta brillano “The Story So Far” e “Tyger Bay”, la prima ha un’apertura da stadio (forse i nostri immaginavano un futuro più roseo e arene più grandi per i loro show), la seconda un buon compendio di chitarre impeccabili e voce da manuale, con stop’n’go e riff da capogiro. La vera chicca, tuttavia, è la chiusura con “Don’t Stop By”, uno dei brani meglio costruiti, fino a quel momento, dell’intera NWOBHM, con un incedere quasi orchestrale, merito di un lavoro stratificato di chitarre armonizzate a costruirne l’atmosfera che alterna momenti litanici a cariche sfrenate di puro metallo inglese.
“Spellbound” raggiunse il 33° posto in classifica, e il successivo – e meraviglioso – “Crazy Nights”, inciso con la stessa formazione e uscito nel novembre dello stesso anno, si fermò ‘solo’ al 51°, segnando di fatto la fine dell’età dell’oro dei Tygers. Il successivo “The Cage” (contenente la loro più grande hit “Love Potion N. 9”, cover del brano dei The Clovers, unico brano dell’album con la chitarra di Sykes che partì senza preavviso per unirsi ai Thin Lizzy) tentò una godibile via radiofonica, apprezzabile solo se si dimenticano i fasti dei tre lavori precedenti. Poi vennero gli anni bui, due album AOR senza il loro leader Robb Weir, lo scioglimento e infine, nel 1999, la reunion al Wacken con Jess Cox alla voce. Da lì, dopo diversi cambi di formazione, l’ingresso di Jacopo Meille nel 2004 donò nuova vita al gruppo di Robb Weir e, con una serie di album solidi e sinceri, la tigre è tornata a ruggire sui palchi di mezzo mondo, con una longevità che poche band della NWOBHM possono vantare. Eppure, a più di quarant’anni di distanza, “Spellbound” resta il vertice artistico dei Tygers of Pan Tang. Un disco senza compromessi, capace di incarnare pienamente il suo tempo e, allo stesso modo, di superarlo. Non li rese star mondiali, ma consegnò il loro nome all’eternità per tutti gli appassionati del metal britannico, garantendo loro quella fama duratura e la dimensione di culto che nessuna classifica avrebbe potuto consegnargli.
Mentre il mondo saluta John Sykes, scomparso nel dicembre 2024 dopo una lunga lotta contro il cancro, il suo spirito rimane intrappolato proprio fra le pieghe incandescenti di “Spellbound”, perché, non bisogna mai dimenticarlo, è da lì, da quel biennio perfetto e irripetibile, che nasce la leggenda di un chitarrista capace di ridare vita, anche se per poco, alla musica di autentiche leggende del rock and roll come Thin Lizzy e Whitesnake.