Il primo Tron, un progetto ambizioso dal budget discretamente alto, nel 1982 aveva lasciato la critica perplessa e commercialmente parlando era andato a malapena in pari.
Uno si chiede: perché farne un altro allora?
Nel 2010 però ci riprovano, con Tron: Legacy. Stessi risultati: critica perplessa, incassi appena sufficienti per non perderci.
Uno allora si chiede: perché insistere e farne un altro ancora oggi?
È molto semplice: il primo Tron era stato a suo modo rivoluzionario.
Fu il primo film a usare in grande abbondanza effetti speciali digitali.
E questo, per la precisione, perché fu il primo film a mostrarci cosa c’è veramente dentro a un computer: un viaggio tra circuiti e memorie alla scoperta della vita dentro una scheda madre.
Era uno sguardo verso un mondo che fino a quel momento avevamo soltanto immaginato: un pezzo di straordinario giornalismo investigativo, e un’operazione di full immersion senza precedenti. Tutti noi avevamo immaginato che dietro quei bit e quei pixel ci fossero entità misteriose, complesse, per certi versi volubili – quante volte vi è capitato di giocare a un videogioco e avere l’impressione che stesse imbrogliando apposta per non farvi vincere? – e finalmente ne avevamo una rappresentazione fedele. Non solo dei programmi, ma di tutto il sistema di regolamentazioni a cui sono assoggettati. E tutto questo grazie a una tecnologia – delicatissima, a tutt’oggi usata col contagocce – che permette agli umani di entrare dentro a un computer in modo non diverso da come abbiamo potuto fare quelle importanti scoperte mediche poi fedelmente raccontate da Esplorando il corpo umano.
Era indubbiamente affascinante, e lo è ancora.

Quello che si vedeva in un cabinato dell’82 se riuscivi ad avventurarti tra i circuiti

Il primo Tron era ancora un po’ ingenuo: era comprensibile, era il nostro primo approccio, doveva essere per forza un po’ morbido, si era dipinto tutto in modo ancora abbastanza semplice, ogni personaggio una specie di affascinante figura mitica. Tron: Legacy era già più complesso, ci mostrava un mondo che nel frattempo era ovviamente avanzato, entrando in maggiori dettagli di quella che era una vera e propria società.
Questo terzo film, Tron: Ares, abbandona il lato più freddo di questo sguardo documentaristico per soffermarsi sul cuore pulsante della faccenda – le intelligenze artificiali – mettendole maggiormente a confronto con il nostro mondo. E lo fa per una volta abbandonando il contesto ambientale/societario, ma concentrandosi digital-antropologicamente ed empaticamente sugli esseri elettronici (i Tronniti? i Tronnesi? I Tronnapoletani?): come vivono, come ragionano, cosa desiderano.
Ma non fidatevi di me: l’ho chiesto direttamente a ChatGPT.

Questi passi avanti sono importanti, e mi è sembrato giusto evidenziarli: comprenderci l’un l’altro a fondo è la chiave della convivenza in un futuro che è ormai alle porte.

Parliamo però strettamente del film, che siamo qui prevalentemente per questo.
Il primo, nei piani della Disney avrebbe dovuto essere una specie di Star Wars col computer. Lì è dove nasce un malinteso con il regista Steven Lisberger e i suoi collaboratori, che invece sembrano ispirarsi maggiormente all’estetica spinta e all’impenetrabile freddezza del film sbagliato di George Lucas, ovvero L’uomo che fuggì dal futuro. Il risultato è un film a tutt’oggi visivamente incredibile ma che, nonostante un paio di sequenze memorabili come la corsa tra le moto digitali e la battaglia coi frisbee, perde di interesse a una velocità francamente impressionante.
Il secondo, per motivi oscuri, decide di mantenere lo stesso tono: lo stesso tipo di operazione, con la stessa narrativa ingarbugliata, ma senza l’effetto sorpresa/stupore. Non aiuta che il loro unico asso nella manica – Jeff Bridges ringiovanito digitalmente quando nessuno sospettava che si potesse fare – non funzionasse gran ché. Il resto è ugualmente incomprensibile.

Il cast– no scusate ho sbagliato

Il terzo finalmente prende il coraggio a due mani: imposta una trama che si riesce a seguire. A costo di farla stupida come un comodino, porcapupazza, ma comprensibile.
Semplifica, ambienta nel mondo digitale soltanto un paio di macrosequenze, e per il resto gioca a creare l’effetto novità mischiando la grafica tronica con il mondo reale.
Sono un po’ ambivalente su questa cosa: il motivo per cui sono affezionato alla saga di Tron nonostante le sue debolezze narrative è che può mostrare un mondo che non si vede da nessun’altra parte: uscirne è un po’ barare. È un po’ l’effetto della versione 1987 dei Masters of the Universe: perché devo fomentarmi all’idea di vedere Eternia su grande schermo se poi mi mandi He-Man a Whittier, California, che è emozionante quanto vederli arrivare a Carpi? Piuttosto avrei cercato aree digitali meno esplorate per variare un po’ l’impatto visivo e renderlo meno monolitico. Però ammetto che l’effetto non è male, ricorda vagamente la scena dei fantasmi liberati a Manhattan nel primo Ghostbusters. E ammetto che vedere le Light Cycle sfrecciare per gli stradoni e un Recognizer gigante sorvolare le strade di San Francisco come un Kaiju digitale è abbastanza emozionante.
L’effetto “braghe calate” è abbastanza totalizzante: questo è il classico film preoccupato unicamente della resa visiva e dai momenti di video-art, e contentissimo per il resto di adagiarsi a tutti gli stereotipi del caso, lasciar muovere il plot intorno a un pretesto scemo e piegare ogni svolta attorno alle più basiche idee di fan service pur di fare in modo che tutto fili liscio e senza complicazioni. Per l’aria che tira è un miracolo che riesca a fare tutto questo in modo non eccessivamente fastidioso: non ha l’ansia di piacere dei film con Dwayne Johnson/Ryan Reynolds, ma è chiaro che non vuole complicarsi la vita e dare troppi pensieri. È sicuramente, in questo senso, il più accessibile della trilogia.

Il cast giusto

Ma qui è dove scatta l’altro aspetto fondamentale della saga di Tron: la musica.
Il primo godeva di uno score gigantesco affidato a una leggenda dei synth analogici: Wendy Carlos.
Il secondo era sostenuto dai Daft Punk: non sono mai stato un loro fan, ma il loro sound si sposava con quel mondo in maniera spettacolare.
Tron: Ares è invece il trionfo dei Nine Inch Nails.
E quando dico trionfo non dico semplicemente che ci stanno bene, ma che si divorano letteralmente il film, diventando l’unico vero motivo per cui consiglio l’esperienza in sala.
È incredibile quanto una qualsiasi scena cretinissima diventi di colpo epica se sotto ha i synth sparati di Reznor e soci: è davvero tutta un’altra cosa. I NIN dominano il tono del film come non vedevo fare dai tempi di Basil Poledouris con Conan il barbaro, anche se ovviamente con l’handicap di non dovere semplicemente accompagnare un’opera di John Milius già potente di suo, ma di dover rimediare in totale solitudine a una colorata cazzatella diretta dal tizio responsabile del sequel di Maleficent. E per me avrebbero dovuto osare persino di più.

Digital-kaiju

Una nota finale per il protagonista della storia, Ares.
Si è fatta molta polemica di recente su “Tilly Norwood”, la presunta attrice interamente creata con l’intelligenza artificiale, e devo dire che mi trovo d’accordo su molte cose che sono state dette.
Un’intelligenza artificiale non ha le nostre esperienze di vita, non ha le nostre emozioni, non soffre e non gioisce come noi, non prova estasi e non elabora traumi: è pura imitazione incapace di creare una performance originale che possa risultare vera ai nostri occhi.
E purtroppo, nonostante il film faccia di tutto per dimostrare il contrario, Jared Leto ne è la prova.
La scena in cui discute della differenza tra Mozart e i Depeche Mode è semplicemente imbarazzante.
La tecnologia sta facendo rapidi passi da gigante ma, se lo chiedete a me, possiamo stare tranquilli: Jared Leto non rimpiazzerà mai un attore in carne e ossa.

(non ho inviato il messaggio, perché sono ancora umano)

Poster-quote:

“Sono fatti cosììììì… sono proprio fatti cosììììì…”
Nanni Cobretti, i400calci.com

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