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Emmanuel Diaz si presentò alla prima udienza del processo sul crollo del ponte Morandi perché non sarebbe riuscito a rimanersene a casa, sapendo che in tribunale avrebbero parlato della morte di suo fratello Henry. Dal 7 luglio del 2022 Diaz non ha saltato nemmeno una delle oltre duecento udienze. Nell’aula del tribunale di Genova, ricavata in una tensostruttura, si siede sempre allo stesso posto all’ultimo banco.

In questi anni ha seguito le indagini, ha studiato le perizie sul crollo, ha ascoltato con rabbia la versione della difesa e con trasporto la requisitoria dei pubblici ministeri. Ora attende la richiesta della pena per i 57 imputati prevista entro la fine della settimana e infine la sentenza, a cui il tribunale spera di arrivare entro il prossimo anniversario della strage, cioè ad agosto del 2026. «Partecipare al processo è un modo per tenere in vita Henry, per arrivare a una verità, per dirgli – se in qualche modo può sentirmi – che non è morto invano», dice.

Il 14 agosto del 2018, alle 11:36, uno dei tre piloni che sostenevano il ponte Morandi di Genova crollò trascinando con sé un tratto di strada lungo circa 200 metri. Il ponte era la principale via di uscita e di ingresso in città, il ponte autostradale di Genova per eccellenza, riconoscibile per la sua imponenza. Crollò sul torrente Polcevera, su alcuni binari ferroviari e sopra alcuni capannoni dove in quel momento non c’era nessuno. Almeno una trentina di veicoli tra auto e camion si trovavano sul tratto crollato. Morirono 43 persone.

Le macerie del ponte Morandi di Genova

Le macerie del ponte Morandi di Genova (Paolo Rattini/Getty Images)

All’epoca Henry Diaz aveva 30 anni e studiava ingegneria. Era arrivato insieme alla mamma e al fratello dalla Colombia alcuni anni prima. Viveva a Uscio, nell’entroterra di Genova. Era molto tifoso dell’Inter. Il giorno prima della strage aveva accompagnato all’aeroporto suo fratello Emmanuel, diretto in Colombia. Insieme avevano attraversato in auto il ponte Morandi.

Poco dopo essere atterrato a Medellín, Emmanuel venne a sapere del crollo del ponte. Guardando una diretta su Facebook vide la sagoma di un’Opel Corsa gialla. Associò quel segnale ai messaggi non visualizzati, alle chiamate senza risposta, e capì che suo fratello era morto. «Che era stato ucciso», precisa. Evidentemente era dovuto passare per il ponte anche il giorno dopo aver accompagnato lui all’aeroporto.

L’inchiesta della procura di Genova fu lunga e complessa. Tutta l’area del ponte fu sequestrata e iniziò la fase più delicata, quella dell’incidente probatorio, lo strumento che dà la possibilità di acquisire prove da utilizzare nel corso di un eventuale processo prima che quel processo inizi, quindi durante la fase delle indagini. L’incidente probatorio è indispensabile quando i tempi lunghi della giustizia rischiano di compromettere le prove o peggio, di farle perdere per sempre, come nel caso di Genova.

La prima perizia fatta nel 2019 esaminò le parti crollate del ponte, concentrandosi in particolare sulla corrosione dell’acciaio interno. I periti accertarono che i cavi della pila numero 9 erano corrosi in modo irrimediabile (le “pile” sono gli elementi verticali che sostengono il ponte, dette anche piloni o pilastri). Nel 2020 la seconda perizia approfondì le responsabilità delle società che avrebbero dovuto vigilare e commissionare interventi di manutenzione, Autostrade per l’Italia (ASPI) e la sua controllata Spea Engineering.

I periti lo scrissero in modo inequivocabile: il crollo e la morte di 43 persone si sarebbero potuti evitare se «fossero stati svolti i regolari controlli e le attività di manutenzione che avrebbero certamente individuato uno stato di corrosione cominciato sin dai primi anni di vita del ponte e che è progredito senza arrestarsi fino al momento del crollo».

Di quei mesi Emmanuel Diaz ricorda soprattutto il giorno in cui fu diffuso il video di una telecamera di sorveglianza della Ferrometal, un’azienda privata di recupero metalli che si trova accanto al ponte. I periti dissero che solo grazie a quel video era stato possibile stabilire l’esatto punto di partenza del crollo, che coincideva con la rottura di un tirante.

La corrosione dei tiranti – si legge nella perizia – era così profonda che sarebbero bastate semplici ispezioni per rendersi conto della gravità della situazione. «È stata la prova regina, la dimostrazione che il Morandi non è crollato per ragioni diverse dal degrado, come sostenevano le difese», dice Diaz.

Nel marzo del 2022, durante l’udienza preliminare, Autostrade per l’Italia e Spea Engineering patteggiarono per circa 30 milioni di euro e furono poi escluse dal processo penale. La procura si disse favorevole e la richiesta fu accolta dal tribunale. La decisione fu influenzata dal cambio di proprietà di ASPI, che nel giugno del 2021 era passata dalla holding Atlantia della famiglia Benetton a Cassa Depositi e Prestiti (CDP), società finanziaria controllata per l’83 per cento dal ministero dell’Economia.

L’udienza preliminare si concluse con il rinvio a giudizio di 57 persone, accusate a vario titolo di disastro colposo, omicidio plurimo aggravato a partire dall’omicidio stradale, falso e attentato alla sicurezza dei trasporti.

Oltre a molti dirigenti di ASPI e Spea Engineering, tra gli imputati c’è anche Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, ora in carcere dopo la condanna a sei anni per disastro e omicidio colposo per uno dei più gravi incidenti stradali mai avvenuti in Italia, che causò la morte di 40 persone in provincia di Avellino nel 2013. Nell’incidente un autobus precipitò per 30 metri da un viadotto a causa di un guasto dell’impianto frenante e del cattivo stato delle barriere ai lati del viadotto.

Il processo per il crollo del ponte Morandi iniziò quasi quattro anni dopo il disastro. Alla fine della prima udienza Diaz disse che per lui era già un traguardo avere aperto un processo con così tanti imputati. Per settimane parlarono i famigliari delle vittime, i feriti, i rappresentanti di associazioni e istituzioni, le parti civili.

L’istruttoria è andata avanti per oltre due anni, fino allo scorso maggio. In aula hanno poi parlato centinaia di persone tra testimoni, periti dell’accusa e della difesa, consulenti tecnici. Si è discusso in modo approfondito delle perizie, sono state ascoltate le intercettazioni telefoniche, sono stati proiettati documenti interni delle società.

Nelle lunghe giornate passate in aula Diaz ha trovato alcuni diversivi per tenere lontana la noia. Ha contato più volte le lampade, i banchi e le tavole di legno del pavimento, poi si è reso conto di una cosa, di un particolare che non aveva mai considerato, e cioè che in un processo come quello i silenzi – soprattutto i silenzi degli imputati in risposta alle domande – erano importanti. «I silenzi raccontano una storia. Le carte parlano, ma anche i silenzi parlano. Rivelano cosa si vuole tenere nascosto».

Il 16 giugno i pubblici ministeri ​​Marco Airoldi e Walter Cotugno hanno iniziato la requisitoria leggendo i nomi delle 43 vittime. Cotugno ha detto:

Abbiamo passato diversi anni in questo dibattimento. Abbiamo discusso e dibattuto di tantissime cose: siamo diventati esperti di cemento armato, cemento armato precompresso, sappiamo tutto sulla corrosione, sappiamo come si riflettono le onde elettriche. Abbiamo approfondito e approfondiremo le norme tecniche. Ma in tutti questi anni non abbiamo mai affrontato il cuore di questo processo attorno al quale gravitano tutte queste cose, questi dettagli. Noi non siamo qui per un pezzo di cemento. Questo sforzo collettivo molto importante sarebbe forse ingiustificato per un pezzo di cemento ma siamo qui per quelle persone che hanno perso la vita su quel ponte. Il nome di ognuna di quelle persone non è mai neppure stato pronunciato e secondo noi è giusto leggere quei nomi. Non è una commemorazione, noi siamo in un processo, un processo tecnico. Però dentro un processo è corretto darne lettura.

Nei quattro mesi successivi i magistrati hanno esposto nel dettaglio tutte le accuse nei confronti dei 57 imputati. La loro tesi è che il crollo sia il risultato di una precisa strategia aziendale: risparmiare sulle manutenzioni per ottenere più profitti. Secondo l’accusa, i dirigenti delle due società avrebbero ignorato intenzionalmente i segnali di degrado del ponte Morandi per evitare di sostenere i costi di manutenzione.

Nelle udienze di quest’estate i magistrati hanno dedicato molto tempo a ricostruire cosa avvenne all’inizio degli anni Novanta, per la precisione nel 1992, quando ASPI e Spea Engineering eseguirono un costoso intervento di rinforzo su due pile del ponte, la 10 e la 11. Questo intervento, noto tecnicamente come retrofitting, fu necessario perché le ispezioni avevano rilevato uno stato avanzato di degrado degli stralli, i tiranti in cemento armato. I cavi interni della pila 11 furono sostituiti con cavi esterni.

La pila 9, quella crollata, non aveva niente di diverso rispetto alle pile 10 e 11. Tutte e tre erano state esposte alle stesse condizioni ambientali e a sollecitazioni di traffico identiche. L’accusa sostiene che il fatto stesso che anni prima fosse stata messa in sicurezza la pila 11 dimostra che dirigenti e tecnici delle aziende erano consapevoli dei problemi di degrado e corrosione. Furono commissionate soltanto ispezioni poco invasive, le cosiddette riflettometrie, tecniche note in tutto il mondo per la loro inaffidabilità, se fatte senza altri test.

A luglio i pubblici ministeri hanno ridefinito le accuse: gli imputati non devono rispondere più di attentato alla sicurezza dei trasporti perché non ci sono prove definitive sul dolo, cioè sulla volontarietà del reato. Sono rimaste valide le ipotesi di crollo e disastro colposo, l’omicidio colposo plurimo, accuse comunque gravi. Per le accuse di falso è intervenuta la prescrizione.

La tensostruttura allestita per il processo

La tensostruttura allestita per il processo (Stefano Guidi/Getty Images)

I concetti di dolo e di colpa sono centrali in questo processo, e molto delicati da affrontare sia per i magistrati che per i giudici. Un reato viene commesso per colpa quando non c’è volontà di causare un incidente, ma l’incidente accade a causa di negligenza o imprudenza o ancora per la violazione di leggi e regolamenti. Il dolo, in un caso come questo, sarebbe dolo eventuale. Significa che i dirigenti, pur non volendo il crollo, avrebbero evitato la manutenzione consapevoli dei rischi. Secondo un’interpretazione più accusatoria, la deliberata scelta di non fare la manutenzione equivarrebbe ad accettare il rischio del crollo e di tutte le sue conseguenze.

Durante tutta l’istruttoria gli avvocati della difesa hanno invece sostenuto che il crollo fu un evento imprevedibile, causato da errori di costruzione non rilevabili dai controlli. Durante le udienze si è parlato più volte di un “vizio occulto”, ovvero dei limiti del progetto dell’ingegnere Riccardo Morandi che aveva previsto di inserire i cavi di acciaio nel calcestruzzo all’interno di un involucro, rendendoli inaccessibili per ispezioni visive dirette. Sono state anche contestate le perizie dell’accusa, secondo la difesa poco approfondite. Gli avvocati hanno detto che i dirigenti adottarono sistemi di controllo conformi con le normative dell’epoca.

La tesi della difesa è che i dirigenti non avrebbero mai potuto accettare il rischio del crollo per fare profitti: anche in caso di negligenza non potevano rimanere indifferenti di fronte alla possibilità di un disastro. Alcuni tecnici in aula hanno detto ai giudici che percorrevano regolarmente il ponte Morandi in auto, a riprova della loro buona fede.

Le difese torneranno a parlare in aula dopo la fine della requisitoria dei magistrati prevista per questa settimana. Nei prossimi due giorni è attesa la richiesta delle pene. Sarà un punto di svolta del processo, perché da quel momento si potrà capire il peso delle accuse. Si potrà capire soprattutto se l’accusa si confermerà ambiziosa come è apparsa finora. Diaz si aspetta richieste di pena “esemplari”, anche se nelle ultime udienze ha avuto la sensazione che i magistrati siano stati un po’ meno battaglieri, che «stiano finendo la benzina».

Il 14 agosto del 2026 saranno passati otto anni dal disastro. Visti i tempi del sistema giudiziario, per di più per un processo così complesso, arrivare a una sentenza entro agosto del 2026 sarebbe un risultato notevole. Anche Emmanuel Diaz ci spera. «Non sono molto fiducioso sulla possibilità di avere giustizia per la morte di mio fratello, quello no, perché non credo che potrà mai essere fatta giustizia. Ma almeno questo processo è riuscito a far conoscere a tutti cosa è successo, a far emergere la verità».