Presence del venerabile Steven Soderbergh, nelle sale italiane dal 24 luglio 2025, è una ghost story girata in soggettiva dal punto di vista del fantasma. Idea carina, vero? E del resto cos’è la cinepresa, dal punto di vista dei personaggi di un film e dentro lo spazio filmico, se non un fantasma in una casa infestata? Una presenza cioè invisibile che fa da portale con un mondo altro popolato da presenze benigne che osservano in una beata condizione di presenza-assenza e dimenticanza di sé, sgranocchiando pop-corn? (Sì, il paradiso me lo immagino calorico).
Recensione di Presence di Steven Soderbergh
Presence, scritto ancora da David Koepp – un altro nume di Hollywood la cui penna volteggia da Jurassic Park a Panic Room, da Cronisti d’assalto a Indiana Jones – come i recenti Kimi e Black Bag, con i quali compone un’ideale trilogia dell’alienazione e della paranoia, racconta una storia di semplicità primitiva: la famiglia Payne, nel complesso amorevole ma tutta scompensata – la madre Rebecca (Lucy Liu) non ha occhi che per il primogenito Tyler (Eddy Maday) e trascura la figlia minore Chloe (Callina Liang), ancora stravolta dal lutto per la morte della migliore amica, mentre il padre Chris (Chris Sullivan), è talmente comprensivo e disponibile verso tutti da risultare irrilevante – si trasferisce in una casa infestata da un fantasma. A chi appartenga lo spirito in questione e che intenzioni abbia lo scopriremo pian piano.
Da qualche anno Steven Soderbergh sembra lavorare un po’ come quegli chef-filosofi che sottraggono ingredienti alle ricette per arrivare al sapore assoluto, come quegli anacoreti che prendono a mangiare solo una volta al giorno e poi solo una alla settimana per scoprire se si può vivere di aria e luce del sole: a ritmi quasi fordisti sforna uno dopo l’altro questi film brevi, essenziali nei mezzi e nel linguaggio, anodini nei toni, deliberatamente insulsi nella trama, e quasi sempre meravigliosi.
Courtesy Lucky Red
L’evoluzione di Soderbergh
È come se Soderbergh, che ha raggiunto il successo a 26 anni con Sesso, bugie e videotape (1989) e prima di compierne quaranta ha collezionato ogni riconoscimento morale e materiale a cui un regista possa aspirare, da lì in poi avesse iniziato a fare una sorta di cinema molecolare, interessato soprattutto a forme, elementi e alle loro combinazioni, un punto di vista sul cinema che fa pensare contemporaneamente a quello di un bambino e a quello di dio.
Svolgimento e soluzione della trama di Presence sono per certi versi banali, ma di questa prevedibilità si finisce presto per essere quasi grati, come se Soderbergh avesse deciso di togliere di mezzo un meccanismo rozzo e ingombrante per farci vedere meglio ciò che è più importante. L’idea di usare la macchina da presa come un personaggio, a cominciare dai movimenti, ha un effetto allo stesso tempo iperrealista e di rottura della finzione, che è la vera genialata del film: per tutto il tempo di un film che parla soprattutto della difficoltà di comunicare lo spettatore anche senza rendersene conto è tenuto sul filo della tensione dal rischio che in qualunque momento il mondo reale e quello metafisico possano accorgersi l’uno dell’altro e iniziare a comunicare, che si rompa la quarta parete e la finzione si riveli, e nel rivelarsi smetta di essere finzione.
Presence è un horror solo nella confezione, per nulla interessato a spaventare lo spettatore. E non è nemmeno un film sul lutto in senso stretto, bensì un film che parte dall’idea del lutto per investigarne una più ampia, cioè di quanto dolore e quali conseguenze tragiche possa generare il sentimento, che generalmente consideriamo salvifico, dell’amore.
Nato a Genova nel giorno in cui a Bel Air morì Truman Capote, dopo un lungo percorso di autocoscienza si è rassegnato all’idea che si tratta solo di una coincidenza. Laureato in Relazioni Internazionali e diplomato alla Holden ha lavorato a lungo nelle istituzioni europee, scrivendo nel tempo libero per L’Ultimo Uomo, Minima et Moralia, Pandora e altre testate. Nel 2018 entra nella redazione di Esquire Italia, di cui oggi è Digital Managing Editor. Ha scritto anche due libri e qualche sceneggiatura.