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Il 22 ottobre esce in libreria Niente mi aveva preparato, un reportage recente dalla Striscia di Gaza scritto dallo storico francese Jean-Pierre Filiu, grande esperto di storia e attualità dei paesi del Medio Oriente. Filiu ha passato un mese nella Striscia all’inizio di quest’anno, per vedere di persona le condizioni e la distruzione di un luogo che conosce bene e che aveva spesso visitato in passato, prima dei bombardamenti israeliani seguiti ai massacri di Hamas del 7 ottobre 2023.
Niente mi aveva preparato, che da oggi può essere preordinato dal sito del Post, è pubblicato da Altrecose, il progetto editoriale in collaborazione con Iperborea, che ne ha acquistato i diritti per tradurlo in italiano al momento della sua pubblicazione in Francia, alla vigilia dell’estate scorsa. Di Jean-Pierre Filiu era stato da poco tradotto in italiano da Einaudi un precedente libro, il saggio Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto. Niente mi aveva preparato è piuttosto il racconto straordinariamente concreto e chiaro di quello che è diventata in due anni la Striscia di Gaza, delle vite dei suoi abitanti e della morte che le circonda, accompagnato dalle competenti spiegazioni di Filiu sulla storia che ha portato fin qui. Una ricca ed efficace raccolta di informazioni e descrizioni, per avere chiaro quello di cui parliamo mentre le cose sono ancora in evoluzione, allineata alle intenzioni di Altrecose di rendere chiara e pratica la conoscenza della realtà e delle cose.
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Niente mi aveva preparato a entrare nella Striscia di Gaza di notte e a piedi. E niente aveva preparato i militari israeliani a questa manovra inedita: scortare in territorio occupato il nostro gruppo di una ventina di operatori umanitari, ciascuno con due valigie ricolme di attesissimi rifornimenti piuttosto che di effetti personali. Ma il nostro pullman, predisposto dalle Nazioni Unite e scortato dalla polizia israeliana, ha trovato l’ingresso sbarrato al varco di Kerem Shalom, il «Vigneto della Pace», ormai diventato l’unico punto di accesso nell’enclave per gli operatori umanitari. E dopo un’attesa di tre ore nel parcheggio adiacente al confine egiziano, l’esercito israeliano ha deciso di «testare» una nuova formula e accompagnare il nostro pullman verso nord, lungo la barriera elettrificata che circonda la Striscia.
Una squadra della fanteria israeliana ci aspetta davanti a una breccia aperta nella recinzione durante l’invasione dell’enclave. Il nostro gruppo di operatori umanitari arrivati dai cinque continenti viene radunato sotto la luce cruda di alcuni riflettori. Ci annunciano un briefing sulle condizioni inedite del nostro ingresso a Gaza, ma i soldati israeliani non ci rivolgono nemmeno la parola. Senza ragionarci tanto, intuisco il loro disagio di fronte alla missione che è stata loro assegnata. Se pattugliano questa porzione della Striscia è per combattere i «terroristi» palestinesi, non per accompagnare gli operatori umanitari internazionali.
Qualcuno urla un ordine e la jeep di testa, abbaglianti spianati, entra a passo d’uomo nell’enclave. Io mi inserisco senza indugi nella sua scia, lo sguardo fisso sui lampeggianti rossi del veicolo che mi precede. La verità è che preferisco non scrutare l’oscurità circostante. Perché seppure ci troviamo nella zona cuscinetto istituita da Israele all’interno della stessa Striscia, siamo entrati nel territorio di quella che un tempo era Rafah, la «cittadella del Sud», per secoli baluardo della Palestina, alle porte del deserto egiziano del Sinai. Non è così che immaginavo il mio ritorno nella Gaza assediata, in questa notte del mio sessantatreesimo compleanno.
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