Armiero e Busco ci accompagnano, senza inseguire, tra tutte le case e i bambini di questa scrittrice nomade e inquieta che ha finito la sua esistenza nella bellezza scarna, a tratti scontrosa, di una spiaggia del Basso Lazio, nel fazzoletto di terra in cui aveva deciso di vivere («Elia ma quando pensi a tua nonna, dove te la ricordi?» | «A Itri!»), una sirena a modo suo che ha nuotato come una ragazzina nelle acque cristalline dell’Isola riflessa, Ventotene («Ventotene esiste in filigrana, ha una trama fittissima ma esile, la vedono solo quelli attenti, sta troppo in mare per essere tutta in questo mondo, appartiene almeno per metà a un sogno»). Ci sono isole più isole di altre: Ventotene lo è più di molte, in tutta la sua storia dura e il suo incanto timido («Sapeva scegliere bene i posti di mare Fabrizia, rabdomante»), esilio di chi ha bisogno di stare con sé stesso. E solitaria e marina, era la Ramondino: un’avventuriera («Fabrizia Ramondino era omerica quasi del tutto. L’unico tratto virgiliano, georgico, era il suo saper distinguere mille nomi di piante, il resto era avventura, rischio, viaggio di Ulisse a ogni istante»). Ci sono incontri preziosi raccolti in questo memoir, c’è l’epica del quotidiano, il coraggio del ripercorrere i passi che ci spaventano («è l’ultimo tratto dove ha camminato Fabrizia, che con quelle gambe ha girato mezzo mondo»), la curiosità di aprire le porte chiuse e dimenticate, l’appartenere ai luoghi che ci sono appartenuti («a ripensarci, mentre torno guidando, tra queste colline di una dolcezza aspra: ognuno si sceglie il paesaggio che più gli assomiglia»).