di
Roberta Polese
Il frontale nel 2012 era costato la vita a un 37enne: l’assicurazione non aveva risarcito perché Ramponi guidava con i fari spenti. Da lì una lunga battaglia «contro tutti»
Lo sfratto era programmato per l’11 ottobre, l’asta giudiziaria dell’abitazione, valutata 140 mila euro, si sarebbe dovuta tenere il 25 ottobre. Due date che per i fratelli Ramponi erano diventate un chiodo fisso. Sapevano molto bene che non c’erano altre vie d’uscita: si dovevano arrendere. Ma il Comune aveva trovato una soluzione per loro: un alloggio in montagna dove poter portare anche gli animali. La Prefettura, lo conferma l’attuale vicesindaco Antonello Panuccio, aveva dialogato a lungo con i tre fratelli Ramponi. Ma loro erano inflessibili. L’acredine accumulata nel tempo nei confronti di chiunque tentasse di farli ragionare, aveva iniziato ad accumularsi nel gennaio del 2012, quando uno dei due fratelli Ramponi aveva provocato un incidente in cui era morto un uomo di 37 anni, Davide Meldo.
Lo schianto col trattore e l’assicurazione
Il trattore girava in strada senza fari accesi, Meldo guidava una Peugeot, non lo ha visto e l’ha centrato in pieno. La macchina ha preso fuoco, è stato impossibile stabilire la causa della morte del guidatore. L’incidente era avvenuto a Trevenzuolo, la vittima abitava poco lontano. Ci fu un processo: la colpa fu del Ramponi, l’assicurazione non risarcì perché il veicolo non aveva i fari accesi. Dovevano essere i fratelli a tirar fuori i soldi. In parte vendettero dei campi, e per un’altra cifra chiesero un finanziamento alla banca. Non si sa bene quanti soldi, c’è chi dice 50 mila euro, chi 240 mila.
Era il 2014, i fratelli presero i soldi ma non onorarono mai l’impegno di restituire il denaro. Intanto però gli interessi si accumulavano, la cifra si fece importante, gli avvocati non furono pagati, come pure i bolli e le spese legali. I tre fratelli hanno ciascuno una ditta individuale, ognuno con il proprio nome, i beni sono quelli ereditati dal padre. Le ditte dei fratelli Franco e Dino sono ancora attive: quella di Franco è stata creata nel 2009, quella di Dino nel 2019, proprio l’anno in cui invece cessa quella di Maria Luisa, che l’aveva aperta nel 2010. Maria Luisa nel 2020 inizia a prendere il reddito di cittadinanza.
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Il muro contro tutti
Intanto però quei soldi per la banca vanno trovati, il lavoro e i sussidi non bastano. I tre se la prendono l’uno con l’altro: dicono che non hanno mai chiesto un prestito, e che le firme nel finanziamento del 2014 sono false. Ma gli accertamenti dicono il contrario. La banca chiede l’esecuzione, il giudice supervisiona tutto, l’ufficiale giudiziario, in questo caso l’avvocato Pierpaolo Bonini, è la persona che materialmente va a casa dei fratelli e fa in modo che lascino libero l’immobile. La procedura parte con la suddivisione dei campi in tre lotti. Il primo viene venduto subito, il secondo comprende un altro campo e la casa, il terzo, circa 4 mila metri quadrati (metà di un campo da calcio) potrà rimanere alla famiglia Ramponi. Stabilite le divisioni non resta che eseguire la sentenza del giudice. Il primo lotto viene venduto, poi tocca al secondo, quello che include la casa. Si comincia con la comunicazione dell’avviso di sgombero del tribunale, ma nessuno riesce a parlare con i fratelli. Arrivano bollettini e comunicazioni, loro non si fanno mai trovare. A un certo punto la Prefettura, attivata dal tribunale, chiede aiuto al Comune, che prova a contattarli tramite il medico di base, ma nulla scalfisce il silenzio ostinato dei tre. Solo i Servizi sociali riescono a mettersi in contatto con i Ramponi, ma i tre ergono un muro contro tutti. Nel 2021 la piazzata: due fratelli vanno in tribunale e minacciano di buttarsi dal tetto, vengono messi in salvo dai vigilantes.
«Ti facciamo saltare in aria»
Passano gli anni, i tentativi di contattarli continuano senza sosta. E ogni volta le porte sono sbarrate. Fino all’autunno del 2024. A ottobre l’avvocato Bonini arriva con la forza pubblica: Franco e Maria Luisa accendono le bombole e minacciano di farsi saltare in aria. Un mese dopo l’ufficiale giudiziario torna e loro salgono sul tetto e si rifiutano di scendere. Si temporeggia ancora. Partono le denunce per resistenza a pubblico ufficiale e calunnia. A febbraio di quest’anno l’ufficiale giudiziario torna, e arrivano le minacce. «Ti facciamo saltare in aria» dicono i fratelli all’avvocato, e fanno accenno alle bombole e alle molotov.
I droni e le molotov
La questione comincia a farsi molto seria, l’avvocato parla con i carabinieri, la procura vuole vederci chiaro. Il procuratore capo Raffaele Tito ordina ai carabinieri di verificare che in casa non ci siano esplosivi. I tre fratelli piazzano le molotov sul tetto della casa, le riprendono i droni dei carabinieri che passano incessantemente sopra l’abitazione. Negli ultimi giorni i carabinieri avevano attivato anche i droni termici, per capire se i tre fossero in casa e se fossero armati. Intanto le fotografie dell’abitazione, prese di soppiatto in uno dei colloqui fatti l’anno scorso, finiscono online. Il 25 ottobre la casa, valutata 140 mila euro, doveva essere battuta all’asta. Martedì erano previste perquisizioni e sgombero. Quello che resta ora sono tre carabinieri morti e un cumulo di macerie.
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15 ottobre 2025 ( modifica il 15 ottobre 2025 | 08:09)
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