Nel film Le città di Pianura di Francesco Sossai, presentato all’ultimo Festival di Cannes e ora nelle sale italiane, il linguaggio del cinema si fa architettura: un racconto di spazi, silenzi e rivelazioni. Tra i paesaggi veneti attraversati da Giulio, studente di architettura interpretato da Filippo Scotti, e i suoi compagni di viaggio, Carlobianchi e Doriano, emerge un luogo che diventa destino e metafora: la Tomba Brion di Carlo Scarpa, a San Vito d’Altivole.
Trattata come un’apparizione finale, la tomba-memoriale si rivela al termine del viaggio come un capolavoro di modernismo spirituale, spazio simbolico della memoria e terreno di trascendenza. Citata più volte nel film, tra insegne, rimandi e libri che la evocano come “Mecca degli architetti del futuro”, appare solo alla fine, quando la macchina da presa la svela nella sua geometria luminosa, con la grazia di una scoperta interiore, prendendo forma davanti agli occhi degli spettatori in immagini nitide che raccontano l’architetto veneziano e il Veneto da un ennesimo punto di vista. Così, questo manifesto architettonico si scopre spesso ignoto persino a chi quei luoghi li ha abitati per cinquant’anni, come i folkloristici protagonisti del film interpretati da Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla.
L’eredità di Carlo Scarpa funge da moneta di scambio per il giovane studente di architettura trasferitosi da Napoli, al quale viene data l’opportunità, attraverso questo inaspettato incontro, di cambiare poco a poco il modo di vedere il mondo e l’amore girando tra i bar del Veneto.
Sossai, con un tocco sospeso tra gli scritti di Gianni Celati e gli scatti di Luigi Ghirri e Guido Guidi, restituisce al Veneto una dimensione poetica e meditativa, aggiornando in chiave contemporanea gli studi paesaggistici degli Anni 80. Il road movie diventa allora doppio: viaggio reale attraverso la pianura e percorso mentale nella memoria dei luoghi, in cui il paesaggio è al tempo stesso specchio e orizzonte. In questo itinerario, la Tomba Brion si impone come epilogo e rivelazione, come se l’intero film non fosse che una lunga attesa di quel gesto architettonico che unisce materia e spirito.
Il Memoriale, ultima opera di Scarpa e summa della sua poetica, è un dialogo continuo tra Oriente e Occidente. Le strutture in cemento armato si alternano a aree verdi e specchi d’acqua che evocano i giardini giapponesi e islamici, mentre i celebri due cerchi intrecciati, simbolo di un amore indissolubile che parte dalla conoscenza del sé che solo successivamente può ambire alla simbiosi con l’altro (traduzione nel linguaggio occidentale della visualizzazione orientale dello Ying e lo Yang). Nel film, Giulio si ferma proprio davanti a quella finestra circolare, come di fronte a un varco tra la giovinezza e la maturità, tra il reale e l’immaginato, in quella che rappresenta per lui una riscoperta di sé. C’è un momento nel film in cui lo stesso Giulio racconta l’ironia tragica della morte di Scarpa a Sendai, nel corso di un viaggio in Giappone, scivolando dalle scale dell’albergo in cui soggiornava, nell’osservare un singolare dettaglio di uno scalino.
“Proprio lui che in un certo senso le scale le aveva rivoluzionate” ci ricorda Giulio, come se anche la fine fosse parte di una composizione perfetta. L’umorismo come linguaggio del sacro e della riflessione sulla condizione umana, è una cifra stilistica tanto del regista quanto dell’architetto.
La sua tomba è situata in un angolo defilato che ha chiamato “terra di mezzo” tra la Tomba Brion e il cimitero più ampio, scelto personalmente dall’architetto. Un luogo discreto e simbolico all’interno del complesso da lui progettato, che riflette la sua visione di un’opera che è un gioco e un eden ripreso, piuttosto che un luogo di pietà o riposo eterno. Ci sono rimandi alla cultura orientale nel suo pensiero, come al concetto di metempsicosi: l’uomo trasforma la materia del passato, sfidando la morte. La posizione in piedi come i samurai “per sentire le ossa franare quando la carne non tiene più” è un’affermazione di questa visione, quasi un’ultima sfida alle convenzioni e un omaggio alla materia, nel suo scorrere e trasformarsi.
Tutto intorno al complesso un basso recinto separa la Tomba Brion dalla campagna circostante. Da qui i personaggi nel film si affacciano per poter scorgere all’orizzonte la pianura che hanno appena attraversato.
Negli ultimi anni, la Tomba Brion è tornata a essere luogo di ispirazione cinematografica e visiva. Denis Villeneuve l’ha scelta come scenografia per Dune: Part Two (2024), mentre i documentari Il Padiglione sull’Acqua e La Pietà del vento di Stefano Croci e Silvia Siberini ne hanno esplorato i legami con la poesia di Matsuo Bashō partendo dalla scoperta del fatto che casualmente il 28 novembre è la data di morte di entrambi.
Segni di una rinascita culturale che vede in Scarpa non solo un architetto, ma un autore di paesaggi interiori.
Nel cinema di Sossai, come nell’opera di Scarpa, la materia diventa racconto, la luce costruisce spazi, e ogni muro è un respiro. Le città di Pianura rinnova lo sguardo sull’eredità scarpiana, facendone un dispositivo poetico per pensare il contemporaneo: un modo per interrogare il tempo, la memoria e il nostro modo di abitare il mondo. Nel silenzio della pianura, davanti ai cerchi intrecciati della Tomba Brion, in una struttura che si sposa perfettamente con la quiete e la riflessione, Giulio comprende che l’architettura, come il cinema, non è mai solo forma, ma un modo di abitare la vita come elegia silenziosa.
Living ©RIPRODUZIONE RISERVATA
La newsletter di Living: stili e tendenze per la tua casa