Parla l’ex ministro dell’Interno: “L’Italia ora è il vero ponte tra Europa e Medio Oriente”

Edoardo Sirignano

16 ottobre 2025

«Il rapporto di fiducia con Trump può consentire all’Italia di giocare un ruolo di protagonista non solo nella ricostruzione di Gaza, ma nel candidarsi a essere il ponte naturale tra Europa, Mediterraneo e Medio Oriente. Ecco perché a Sharm el-Sheikh è stato riconosciuto a Giorgia Meloni un ruolo da protagonista». A dirlo Marco Minniti, già ministro dell’Interno.

Che idea si è fatto rispetto all’accordo degli ultimi giorni?
«È una straordinaria opportunità. Consente di affrontare una crisi drammatica nell’immediato, tenendo però conto del futuro. Detto ciò, parliamo di un qualcosa da gestire gradualmente».

Quale l’ostacolo più difficile da superare?
«Il cessate il fuoco, il ritorno degli aiuti e la liberazione degli ostaggi costituiscono un bilancio positivo, inimmaginabile qualche settimana fa. Adesso, però, non bisogna far passare molto tempo tra il primo e il secondo pilastro. In un quadro di incertezza sono possibili tutte le iniziative, anche di provocazione, per far saltare l’intero processo».

Quale la priorità su tutto?
«Occorre innanzitutto una forza di stabilizzazione, incentrata sulla presenza di paesi arabi e musulmani.
Ciò è fondamentale sia per il disarmo di Hamas, sia per il completamento del ritiro israeliano. Ci sono, poi, due grandi questioni di prospettiva».

Quali?
«La prima è la ricostruzione di Gaza.
Un inviato dell’Onu ha calcolato che con quelle macerie si potrebbe riempire tutto Central Park. La seconda è lo Stato Palestinese. Se vogliamo una pace duratura non possiamo non pensare a due popoli e due Stati».

Quale la differenza di questa soluzione rispetto ai famosi accordi di Abramo?
«L’attacco di Hamas e il successivo conflitto hanno portato tutto il mondo arabo a porre in maniera ultimativa il tema della Palestina. Se viene meno quest’idea, oggi, si rischia un’intifada globale che può impattare su nazioni ritenute, fino a ieri, moderate».

Hamas è stata sconfitta?
«Certamente. La popolazione ha compreso di essere stata utilizzata come scudo. Le immagini di gioia dei civili, dopo il raggiungimento dell’accordo, lo dimostrano. La gente era stanca di un’organizzazione medievale, vedi le ultime esecuzioni in piazza, e di una violenza inaudita».

Possiamo, dunque, dormire sonni tranquilli?
«Quanto avvenuto negli ultimi 24 mesi non ha fatto altro che riempire giacimenti di odio. Motivo per cui è più di una semplice possibilità che gruppi terroristici o singole individualità (i famosi lupi solitari) di fronte a un vero percorso di pace, possano pensare che un attacco terroristico rimetta tutto in discussione. Il terrorismo ha sempre giocato nella drammatizzazione dei conflitti».

A cosa si riferisce?
«Ad attacchi che possono colpire Israele, l’Occidente e la stessa Europa. Il rischio è ovunque, soprattutto in paesi, come l’Italia, che si sono spesi per la pace. Motivo per cui bisogna stare attenti a qualsiasi tipo di infiltrazione».

Quale sarà adesso il ruolo del nostro Paese?
«È importante che l’Italia e l’Europa siano protagoniste nella ricostruzione. Renderebbe ancora più forte il messaggio di un processo che sta per concludersi. Le tensioni sono dietro l’angolo e la presenza di chi si è sempre battuto per una certa idea di convivenza pacifica può rivelarsi fondamentale. Il nostro Paese, in tal senso, si è sempre rivelato un modello».

Si riferisce forse alla questione africana?
«L’Africa, oggi come non mai, è sempre più importante per gli equilibri complessivi del pianeta, a maggior ragione in seguito a quanto successo in Medio Oriente, che l’ha esposta a importanti venti di destabilizzazione. Per intenderci, abbiamo una guerra civile in Sudan, attacchi terroristici in Somalia, una situazione d’instabilità in Libia, una destabilizzazione nel Sahel, nonché organizzazioni jihadiste impegnate in Mali e Burkina Faso. C’è, poi, la questione del Niger, dove abbiamo anche un nostro contingente impegnato.
Ragioni che ci impongono a pensare come il piano Mattei sia più di una giusta e strategica intuizione, avendo come fine la stabilizzazione politica dell’Africa».

L’Italia, dunque, ha fatto da apripista?
«Non ci sono dubbi, ma tornando alle migrazioni, è bene ricordare che vanno governate. Da qui passa la svolta. Ciò significa incentivare tutti i percorsi di ingresso legale, con operazioni di formazione dei migranti, sia a livello professionale che linguistico. Non possiamo consegnare il futuro delle nostre democrazie nelle mani dei trafficanti di esseri umani».