È lecito da parte nostra guardare Splinter Cell: Deathwatch, la serie animata Netflix dedicata alla celebre saga videoludica, e paragonarlo immediatamente a F1 – Il Film (qui potete recuperare la nostra recensione di F1 – Il Film)? Può sembrare assurdo, ma sono produzioni estremamente simili: entrambe scelgono consapevolmente di non inventare o apportare nulla di nuovo al loro genere di appartenenza, si avvalgono di una trama semplice ma funzionale (che è al contempo punto di forza e debolezza innegabile) e la differenza viene fatta dalla realizzazione. Poco importa poi che si tratti della spettacolare regia di Joseph Kosinski o la sottile ma perenne tensione che pervade Splinter Cell: Deathwatch, vera e propria linfa vitale per una storia di spionaggio.

Quindi sì, il ritorno sulle scene di Sam Fisher (questa volta in ambito seriale, in futuro si spera pure in sede videoludica) ci ha convinto e non poco, rappresentando un’altra discreta prova per la divisione multimediale di Ubisoft e la seconda serie animata di valore della compagnia su Netflix dopo Captain Laserhawk (e qui vi rimandiamo alla nostra recensione di Captain Laserhawk).

Dalla Polonia con furore

Ma, come di consueto, prima di procedere bisogna fare un passo indietro e chiarire cosa sia esattamente Splinter Cell: Deathwatch. La trama è in verità tutto sommato lineare: Sam Fisher, un agente del misterioso 4o Echelon inattivo da diversi anni, viene improvvisamente richiamato in servizio quando una spia amica ferita e braccata si ritrova nella sua casa rurale in Polonia. Sarà soltanto l’inizio di una lunga operazione dedita a scoprire gli inganni di una nota multinazionale, direttamente collegata pure al passato dello stesso Fisher. Ora, come già detto nell’introduzione, è un intreccio che pesca chiaramente a piene mani nell’immaginario delle spy story per poi adattarlo alla mitologia di Splinter Cell, senza aggiungere (ma neanche sottrarre) qualcosa di davvero inedito.

Una mancanza di originalità che potrebbe rappresentare un problema e che invece Splinter Cell: Deathwatch trasforma in un punto di forza, poiché può concentrare di conseguenza tutte le sue energie nel rendere intriganti le varie infiltrazioni dei protagonisti. Qui arriva la grande vittoria della serie Netflix, che riesce a caricare di una tensione irresistibile persino i momenti di quiete, non si ha mai la sensazione che Fisher e McKenna siano al sicuro e che chiunque, da un passante ad un cameriere, possa essere una minaccia. Se un simile aspetto viene a mancare, soprattutto in un canovaccio che li vede spesso isolati e lasciati a loro stessi, non si godrebbe di una spy story degna di questo nome, per dirla in maniera molto sintetica.

Splinter Cell: Deathwatch, però, sceglie saggiamente di non accontentarsi e di impreziosire con piccoli ma graditi accorgimenti il suo insieme. Ad esempio, abbiamo notevolmente apprezzato che la serie sappia quando far tacere il suo duo protagonista (in netto contrasto con la tendenza sempre più imperante di far parlare tutti sempre e comunque), così da rendere tali momenti paradossalmente molto più significativi ed impattanti. La sceneggiatura, infatti, evita qualunque dialogo troppo ridondante o continui recap della situazione, dimostrando fiducia nello spettatore piuttosto che tenerlo costantemente per mano. Un atteggiamento che si riflette persino nella caratterizzazione di Fisher e McKenna, con i due che partono da una base di generale diffidenza ma si avvicinano pian piano tramite piccoli gesti e non conversazioni plateali. Splinter Cell: Deathwatch, insomma, è un telefilm che preferisce suggerire più che mostrare o urlare ai quattro venti e, quando si tratta di agenti segreti che valutano al di sopra di ogni cosa una certa dose di privacy, l’abbiamo trovata una direzione particolarmente indovinata.

Un plauso va poi fatto, secondo noi, anche alla gestione dei flashback su Fisher, che non prendono mai troppo spazio e rivelano passo dopo passo l’interesse personale dello storico personaggio in questa storia. Ancora una volta, rimane sempre una questione di mantenere l’esposizione al minimo, alzare drasticamente la tensione e dare allo spettatore i mezzi necessari per comprendere le ripercussioni senza gravare troppo sul ritmo con interruzioni o spiegoni incessanti (lo stesso finale squisitamente agrodolce rientra in un processo del genere).

Film o serie tv?

Detto ciò, Splinter Cell: Deathwatch è comunque lungi dall’essere una serie perfetta e soffre di due problematiche principali. In primis, la già menzionata semplicità che si conferma un’arma a doppio taglio: da un lato, infatti, aiuta moltissimo la produzione nel procedere spedita con una chiarezza ed una tensione invidiabili; dall’altro, tuttavia, mostra il fianco ad un’endemica scarsità di personaggi, misure di sicurezza, qualche convenienza di troppo che, pur non rompendo mai la sospensione dell’incredulità, a tratti un po’ la scalfisce. In poche parole, la serie targata Ubisoft è troppo semplice considerando le enormi poste in palio, nonostante riesca nella maggior parte dei casi a contestualizzare tale elementarità.

L’altro grande problema riguarda il fatto che palesemente Splinter Cell: Deathwatch non è una serie tv, ma un film di poco più di due ore spezzettato grossolanamente in 8 episodi (alcuni dei quali, tolti sigla e titoli di coda, non raggiungono neanche i 20 minuti). Può sembrare una critica pedante e superflua, ce ne rendiamo conto, legata più a questioni di tassonomia che non relative alla qualità della produzione in sé. E invece impatta enormemente proprio a livello qualitativo l’insieme, che non ha né i tempi né i modi di un telefilm, che si interrompe spesso su momenti un po’ casuali, che in alcune puntate di transizione fatica ad allungare il brodo per non arrivare alla prossima sequenza action. Ecco, la storia è semplice anche per questo motivo, perché sembra non essere stata particolarmente pensata per le tempistiche seriali (ed è invece facilmente divisibile in primo, secondo e terzo atto).

In chiusura, una piccola nota sul comparto tecnico, che fa il suo senza brillare per qualche motivo o per un altro. Splinter Cell: Deathwatch se l’è giocata in sostanza molto sul sicuro, con uno stile tradizionale e animazioni pulite e sempre chiare. E forse, per un prodotto del genere, è una strada comprensibile.