Lui accusato di antisemitismo, lei di filoisraelismo estremista. Lui sospettato perché è del Tg3, lei certamente genocida perché nominata dal vertice meloniano, dunque fascista in orbace. Le due storie raccontano l’eccesso di strumentalizzazione politica che avvelena la tv di stato
Lui mi racconta di aver presentato denuncia alla polizia postale contro chi per primo ha isolato cinque secondi della sua voce fuori contesto facendolo passare sui social per antisemita e odiatore di israeliani. Lei invece mi dice di ricevere minacce di morte e ora si deve anche difendere da una richiesta di licenziamento del suo stesso comitato di redazione, perché dodici secondi della sua voce estrapolati dal contesto la fanno sembrare una seguace di Itamar Ben-Gvir, una che nega i massacri in Palestina.
Entrambi sono giornalisti della Rai. Solo che lui è attaccato dalla destra, che chiede fustigazioni perché è del Tg3, e lei è attaccata dalla sinistra perché è stata nominata direttrice dell’Ufficio stampa dal management meloniano. Le storie incrociate di Jacopo Cecconi e Incoronata Boccia – il mite giornalista sportivo e l’appassionata dirigente della comunicazione – due persone diversissime e che nemmeno si conoscono, raccontano l’eccesso di strumentalizzazione politica che avvelena la tv di stato. Spiegano anche quanto la questione israelo-palestinese acceleri il metabolismo di ciascuno annebbiando persino l’equilibrio della logica. E ricordano infine che l’estrapolazione è la tecnica propria dell’inquisitore: basta una sola frase per trovare il motivo con cui impiccare chiunque. Il Padrino, nel film, suggeriva di non parlare al telefono perché una sola parola, appiccicata artatamente a un preciso contesto, fa risultare l’esatto contrario: diventa prova di delitto.
Martedì sera, poco prima della partita Italia-Israele, Cecconi, bravissimo giornalista di Fucecchio, alto e perbene come Montanelli, era in collegamento da Udine. Raccontava la protesta di chi sosteneva che la partita non dovesse giocarsi perché Israele avrebbe dovuto essere escluso dai Mondiali. Una diretta concitata, con il rumore della piazza, cartelli, cori, tensione. Alla fine, per chiudere il servizio, ha detto: “L’Italia ha la possibilità di eliminare Israele almeno sul campo”. Una frase sportiva, forse infelice, costruita con il linguaggio di una partita. Una volta le frasi senza contesto finivano su “Blob”. E basta. Ma qualcuno l’ha tagliata, isolata dai cori e dalle immagini, facendola sembrare un augurio politico, quasi una sentenza d’odio. Il caso di Incoronata Boccia è diverso ma simmetrico. Lei, sarda, bella ma intelligente come avrebbe detto Natalia Aspesi, stava parlando a un convegno promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche e dal Cnel in occasione dell’anniversario del 7 ottobre. Il suo era un intervento “veemente”, dice lei stessa, ma complesso, sulla responsabilità di chi racconta un conflitto senza poterlo vedere. Il riferimento era preciso: un articolo del Washington Post pubblicato il 3 giugno 2025 e poi corretto perché non rispettava gli standard di verifica.
“Non esiste una sola prova che l’esercito israeliano abbia mitragliato civili inermi”, diceva Incoronata Boccia riferendosi ai fatti raccontati e poi smentiti dal Washington Post, proprio per sostenere che, in un contesto dove non ci sono giornalisti occidentali sul campo, come Gaza, la prudenza e il rigore diventano doveri morali. Ma la sua frase, tagliata e rilanciata senza cornice, è stata letta come una negazione dei massacri di guerra. E così, anche per lei, è cominciata la trafila: il sindacato che chiede spiegazioni, l’Usigrai di sinistra contro l’Unirai di destra, Pd e Avs che si indignano, fratelli d’Italia he difende, le minacce anonime, il sospetto ideologico, e “mia mamma che piange”.
Lui accusato di antisemitismo (e bisogna proprio immaginarsi come possa sentirsi) e lei di filoisraelismo estremista. Lui sospettato perché è del Tg3, dunque comunista in kefiah, lei certamente genocida perché nominata dal vertice meloniano, dunque fascista in orbace. Due estremi che si toccano: entrambi travolti dallo stesso meccanismo, che non distingue più la colpa dall’occasione. E fa strame della reputazione altrui. E’ forse la malattia del nostro tempo: l’estrapolazione come forma di potere, la parola tagliata che vale più di quella pronunciata. Sui social la verità non è mai nel contesto ma nel montaggio. Basta un video di dieci secondi per costruire un colpevole. E l’indignazione digitale, che vive di adrenalina e semplificazione, si diffonde come un virus: prima la rete, poi la stampa, la fogna dei talk-show che sono tutti spettacoli di partito, e infine la politica. Che arriva sempre, puntuale, a trasformare un incidente in un simbolo, un refuso in un caso nazionale. In Rai ogni parola diventa materia di governo e ogni voce un fronte di guerra. Il giornalismo non è più mestiere ma pedina, e la tv di stato, che dovrebbe raccontare il paese, è ridotta a specchio deformante dei suoi vizi: troppa politica dentro, troppa ideologia fuori, nessuna aria fresca in mezzo. Due giornalisti si ritrovano così processati per eccesso di identità, non di contenuto.
Una volta le frasi senza contesto finivano su “Blob” o a “Striscia la notizia”. Oggi finiscono al rogo. E non è più solo un problema della Rai, che dovrebbe liberarsi dalla politica che è peggio della malaria, ma del linguaggio stesso. Le parole sono diventate sospette, il tono un delitto, la sfumatura un privilegio che non ci concediamo più. E’ come se la società intera avesse smarrito la propria zona grigia, quella dove si rideva, si sbagliava, si capiva. Ora non si capisce più: si giudica. E così, nell’Italia che pretende di non sbagliare le parole, l’unica che davvero non si può più pronunciare è quella che servirebbe di più: leggerezza. Quella forma d’intelligenza che sempre salva il mondo dal fanatismo.