Il centro di Torino «deve valorizzarsi senza nostalgia». Le periferie «possono ospitare nuovi modi di abitare: dopo il secolo dell’espansione urbana, ora è quello della metamorfosi ambientale». L’archistar Cino Zucchi racconta così la città del futuro. Si definisce «forestiero» ma anche «torinese d’adozione», lui che ha disegnato la Nuvola Lavazza e ridarà vita alla Cavallerizza, vede il nuovo piano regolatore «come uno strumento attivo per riscrivere il territorio: la forma urbana è il miglior monumento di Torino».

L’urbanistica è monumento?
«Torino ha una struttura forte, una maglia a scacchiera che contiene realtà diverse: dal tesoro dei portici – di cui amo i neon rimasti appesi sotto le volte – al “barocco quotidiano” di Guarini e Vittone, dai gioielli di Pier Luigi Nervi all’architettura radicale anni ’60. Escludendo l’unicum della Mole, musei e cucina, i turisti vengono qui per il fascino dato dalla sua “urbanità”».

Niente da cambiare, quindi?
«Per i turisti in un certo senso sì, ma Torino non deve rimanere congelata. Deve guardare alle sue qualità senza nostalgia. Non sia una città museo, ma un ambiente che valorizzi le stratificazioni e i cambiamenti rendendoli sfondo amato della vita quotidiana».

Nel nuovo piano regolatore Torino punta sul riuso degli immobili. Parla di questo?
«La rigenerazione urbana, termine forse inflazionato, è fondamentale. Le aree dismesse del passato industriale vanno trasformate col nuovo “carattere” della città. Però non basta: la rinascita oggi avviene su uno sfondo più vasto».

Parla delle periferie?
«Va rivisto il loro concetto originario di “quartiere satellite” per connetterle al cuore della città. Il centro e Falchera hanno qualità diverse. Ora il piano punterà l’accento sui quartieri esterni che hanno potenzialità inesplorate. Una buona connessione con il trasporto pubblico potrebbe favorire l’inserimento di funzioni di interesse cittadino anche lì».

Condivide la visione della città dei 15 minuti, quindi?
«Sì, non dimenticando che alcuni punti di interesse in una grande città sono fisiologicamente unici. Va data un’identità propria a ogni quartiere perché più gente lo viva».

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Cosa manca a Torino?
«Ogni volta mi viene in mente solo una cosa: un collegamento forte con la nuova Europa. La città piace agli stranieri: c’è stato il momento di Barcellona o Amsterdam, ora Torino ha tutte le caratteristiche per diventare luogo prediletto di una nuova forma di essere che miscela turismo e lavoro».

Ovvero?
«Una città capace di attirare persone che vengono a vivere qui per qualche mese alla ricerca di una diversa qualità di vita permessa da lavori ormai slegati da un luogo fisico. Parigi sta perdendo abitanti a favore di Bordeaux e Nizza, che sono però ben collegate. Torino è vista come una città bella ma non connessa bene».

Il futuro di Torino è di città turistica e universitaria?
«La vocazione universitaria ha un peso importante e col turismo sta vivendo una grande stagione. Da architetto, direi che il pregio di Torino è quello di essere molto vivibile con un tocco di “sofisticazione” culturale che altre città non hanno: punterei su questo».

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Più parchi, più pedonali, servizi più vicini: è d’accordo?
«Oggi si parla tanto di ambiente ed ecologia ma a volte il punto di vista “verde” prende un tono messianico, risentito nei confronti dell’umano. Il Dna della città europea – penso a Place des Vosges a Parigi o all’Esplanadi di Helsinki – mostra come natura e forma urbana possano amplificare a vicenda le proprie qualità».

Molti negozi al piano terra diventano bnb. Serve uno stop?
«Il “negozio di vicinato” non resisterà per molto alla concorrenza dell’e-commerce. E noi dobbiamo pensare a un nuovo ruolo dei piani terra in centro e non con attività diversificate che diano ricchezza e vitalità allo spazio pubblico».

Come sarà la Cavallerizza?
«Il punto di forza del progetto sarà il nuovo “vestibolo” ai Giardini Reali, oggi percepiti di difficile accesso. Il nuovo ingresso mostrerà la loro qualità di polmone verde e potenzialità d’uso oggi inespresse. La riforma di Cavallerizza è il compimento auspicato di proiezioni e aspettative di tutti i torinesi. A Torino sento ancora un senso di comunità e impegno collettivo che in altri posti è venuto meno ed è il miglior modo per non trasformare la città in una miriade di rimostranze private. Il piano regolatore è in fondo il “contratto sociale” che lega dimensione privata e pubblica in vista di un bene comune: è necessario non solo come insieme di regole, ma anche come visione condivisa».