di
Claudia Voltattorni

Prima degli accordi definitivi, l’ipotesi di revisione su alcuni settori particolarmente colpiti. «Ecco dove l’export made in Italy è più esposto, in bilico anche alcune filiere»

VINO, ACETO, DISTILLATI

«Agli Stati Uniti non si rinuncia né si deroga: questo deve essere chiaro, ma vanno studiate soluzioni e le imprese più esposte sul mercato Usa vanno aiutate». Giacomo Ponti, presidente di Federvini, invita «a trattare ad oltranza per esentare del tutto vino e aceto dai dazi». Non ci sono ancora certezze «ma tariffe del 15% possono avere pesanti ricadute su tutta
la filiera che negli Usa è molto lunga, va evitato di farle ricadere sui
consumatori». Oggi l’export negli Usa vale 2 miliardi per il vino; 280 milioni
per gli spiriti; 140 milioni per gli aceti. «L’obiettivo – dice Ponti – è non
aumentare il prezzo al pubblico né rendere i prodotti dell’italian sounding appetibili». Puntare su altri mercati? «Pura fantasia».

AGROALIMENTARE

 Per il settore agroalimentare, i dazi non sono tutti uguali. Non cambia nulla per il lattiero-caseario che ha già dazi al 15%. Ma per ortofrutta e pasta si passa da zero a 15 e anche l’olio è a rischio. L’Italia è il primo Paese Ue per quota di export negli Usa di prodotti agricoli e agroalimentari con il 12,6%, quasi il doppio della Francia (7,6%) con un valore (nel 2024) di 7,8 miliardi di euro. «Ma questo non è un accordo – dice Cristiano Fini, presidente Cia Agricoltori -, è una mazzata ingiusta che prevede vantaggi solo per gli Usa». Il settore, già penalizzato da crisi climatica e cambio sfavorevole euro-dollaro, è ad altissimo rischio, dice Fini: «E se i prezzi
aumentano, i consumatori sceglieranno prodotti non italiani». 



















































FARMACI

 Nel 2024, l’export di farmaci italiani negli Stati Uniti è stato pari a 10 miliardi e 100 milioni di euro. Finora non erano stati soggetti a tariffe doganali che invece, dal primo agosto, potrebbero passare al 15%, ma le trattative sono tutte aperte. Farmindustria calcola un impatto di circa 2,5 miliardi, dovuto anche all’effetto della svalutazione del dollaro. Per
il presidente Marcello Cattani, l’accordo è «un compromesso che evita
l’escalation commerciale», ma non nasconde «i rischi per la competitività
dell’industria farmaceutica in Europa» a favore degli Usa ma anche di Cina e
India. E non esclude conseguenze per i consumatori Usa con prezzi più alti di medicine e assicurazioni e carenze di farmaci. 

AUTOMOTIVE

Dopo l’accordo in Scozia, l’automotive tira quasi un sospiro di sollievo: per componentistica e veicoli i dazi scendono dal 27,5% del «Liberation Day» (2 aprile scorso) al 15%. Ma prima le tariffe erano al 2,5%. «Anche se al 15%, si tratta comunque di un extra-costo importante complicato da gestire», dice Gianmarco Giorda, direttore Anfia. Nel 2024, l’export Usa della componentistica ha pesato per 1 miliardo e 200 milioni di euro; per le auto è stato di 3 miliardi e 200 milioni. Dazi al 15% avrebbero un costo superiore ai 600 milioni. «In un settore già in una pesante crisi – ricorda Giorda – con 3 milioni di vetture in meno nel 2024 solo in Europa, l’Ue deve definire un piano industriale e rivedere i target del 2035».

ACCIAIO E ALLUMINIO

Per alluminio e acciaio, i dazi restano quelli annunciati lo scorso giugno quando con la «Proclamation» gli Usa li hanno alzati dal 25 al 50%. Dopo il primo dazio fissato al 25% nel 2018 sempre da Trump, l’Italia aveva già ridotto di due terzi l’export negli Usa. Per l’acciaio l’export è sceso a circa 200 mila tonnellate l’anno, per l’alluminio a 250 mila tonnellate. Ma un dazio al 50% è comunque troppo alto. «Significa chiudere completamente con il mercato degli Stati Uniti — dice Paolo Agnelli, presidente del Gruppo Agnelli —: c’è poco da fare, già abbiamo l’energia più cara d’Europa e un rapporto euro-dollaro sfavorevole». Prevede: «Molte aziende potrebbero lasciare l’Italia, noi ci stiamo pensando».

MICROCHIP

Ancora non è chiaro se i microchip subiranno dazi al 15%. Sono stati minacciati ma potrebbero salvarsi all’ultimo miglio della trattativa, perché per gli Usa sono importantissimi. Oggi per i componenti di microelettronica italiani non ci sono dazi e gli Usa sono il 4° mercato di export con 255 milioni di euro (2024), a fronte di un import di 87 milioni. Al primo posto c’è Singapore. «Il mercato dei chip in Italia – spiega Mariarosaria Fragasso, capo del Centro Studi di Anie Imprese elettroniche – sta crescendo moltissimo, come la filiera delle macchine utensili di cui gli Usa hanno un enorme bisogno, il dazio sarebbe un effetto choc». La componentistica elettronica italiana fattura 5 miliardi, di cui 2,9 per i microchip.

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29 luglio 2025