«Ci troviamo davanti a un panorama di rovine». Con queste parole inaugurava il suo corso di Filmologia all’Università di Bologna il professor Michele Canosa, per descrivere chiaramente cosa significasse avvicinarsi al cinema delle origini, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, con la stima dell’80% dei primissimi film girati andati irrimediabilmente perduti. Sembra che qualsiasi forma d’arte e di linguaggio che porti al suo centro la dimensione visiva debba in qualche modo fare i conti col concetto di rovina, con la sua molteplicità semantica e valoriale, traghettata verso un’idea nostalgica di eternità. Proprio intorno al potenziale estetico, filosofico e discorsivo del concetto di rovina si tende lo squisito libro di Susan Stewart Un mondo di rovine, portato in Italia da Aboca attraverso un’elegante edizione – a cura di Giovanna Mancini – che ne traduce il testo e ne arricchisce la dimensione visuale.

Il libro, che nel suo essere denso e corposo scorre come un fluido ruscello di immagini, storie e riflessioni, è negli effetti una trattazione estremamente colta e competente su come l’ingombrante presenza del passato attraverso la sua immaginificazione data dall’azione del tempo sullo spazio abbia saputo diventare canone, regola visiva ed estetica, discorso conteso e condiviso sul mondo degli uomini e sul suo fondo metafisico. Stewart tende con maestria i fili di racconti avvincenti e affascinanti, arricchendo il ricamo narrativo con l’approfondimento degli aspetti filosofici, teologici e ideologici che hanno circondato l’uso che della rovina si è via via fatto, alla ricerca di una significazione mutevole che si è tradotta in pratiche – anche distruttive – e in rappresentazioni e che ancor oggi non si interrompe.

Mondo-rovineP. Bruegel il Vecchio, Torre di Babele (1568)

Al centro di tutto la figura della Torre di Babele, prima grande opera diventata per dettato divino una rovina ad eterno monito dell’umanità intera. La Torre si staglia come metonimia dell’eternità impossibile, dell’inevitabilità della frammentazione. Ogni rovina che incontriamo – sia essa un monumento eroso dal tempo, un edificio trafugato delle sue componenti o la veduta di uno spazio impossibile e incompleto – ci chiama al ricordo dell’ambivalenza dell’operare umano – reso eterno dalla sua caducità – e all’accettazione dell’unica significazione universale, quella dell’azione spaventosa, affascinante e sublime del tempo. Il lavoro di Stewart è efficacissimo nel muovere con naturalezza le direttrici che sono causa e conseguenza di quel che Babele ha significato – e continua endemicamente a significare – per lo sguardo occidentale, tracciando un percorso visivo che, al di là di tutto, è di una bellezza incontenibile.

H. Robert, Veduta immaginaria della Grande Galerie del Louvre in rovina (1796)

La scelta degli artisti e delle opere richiamate nel libro, infatti, dà forma a un mosaico estetico che pervade l’occhio del lettore. Chiaramente le opere citate sono più delle già tantissime contenute nelle illustrazioni del testo – nell’edizione Aboca tutte a colori – ma il senso di avventura dato dalla narrazione di Stewart chiama all’azione, alla ricerca, che sia banalmente con una ricerca online o – per chi può – il gusto del recarsi nei luoghi dove dimorano le rovine e le loro rappresentazioni. Non è infatti scontato per un editore italiano come Aboca correre il rischio di portare in Italia un testo che, per voce di una studiosa statunitense, racconta per la maggior parte patrimonio artistico del nostro Paese. Chiaramente il risultato è ottimo e richiama al dialogo interdisciplinare, nonché al confronto interpretativo: Stewart infatti non manca di porre letture e confronti nel parlare di opere e artisti, mostrando una comprensione e una conoscenza del corpus che è al contempo frutto di perizia e di innamoramento sincero.

Mondo-rovineL. Thiry, Ad gemitus Cereris flectuntur numina olimpi (1547-1550)

L’importanza di un libro come Un mondo di rovine sta anche e soprattutto nel richiamare all’azione il dibattito italiano sul nostro patrimonio visivo, architettonico, artistico e culturale. Tra le pagine di Stewart, infatti, l’amplissima e puntuale letteratura citata denuncia in trasparenza un’abiura dell’Accademia italiana nell’interrogarsi sul senso del proprio intorno, della propria estetica e delle proprie rappresentazioni. Ciò non toglie che il dibattito internazionale – ricchissimo ed estremamente dettagliato – restituisca strumenti efficaci di interpretazione e di lettura del mondo artistico italiano. Anche perché il concetto di rovina – che ha in Roma e nel suo accumulo di resti e monumenti il massimo esempio – ha superato da tempo la necessità di una correlazione oggettiva, traghettato attraverso inesauribili rappresentazioni e repertori.

I. Lanthimos, Poor Things! (2023)

Basti pensare, per riallacciarsi all’inizio del discorso, all’uso che delle rovine fa il cinema – non trattato da Stewart, ma parte dell’insieme di forme linguistiche del visivo: fin dalle origini, con ad esempio La breccia di Porta Pia (1905) o L’Inferno (1911), arrivando all’oggi con le vedute di Poor Things! o l’ingombrante presenza in assenza del passato in Megalopolis – «Se le piacciono le rovine, se vuole andare ad Atlantic City, abbiamo tempo», dice l’autista a Catilina – ci mostrano come il repertorio estetico delle rovine sia un denso strumento di significazione visiva plurimediale. Il libro di Stewart educa lo sguardo a comprenderne motivi e ricadute, tradizioni e traduzioni, protagonisti e interpreti, diventando anche una guida all’uso, delicatissimo, di questi densi collettori estetici del senso.

Mondo-rovineG.B. Piranesi, Piramide di C. Cestio (ca. 1756)

Tra le pagine di Un mondo di rovine si trovano le mappe al rimare poetico dei resti, alla significazione armonica dell’assenza presentificata; arrivati alla fine della lettura si vuole tornare alla prima pagina, cercando di indagare ogni aspetto delle opere, ogni strato degli spaccati di muratura, ogni possibile lapsus pittorico nei versi poetici di Blake o figura retorica nei non finiti di Turner. Attraverso gli otto capitoli del libro – che nella traduzione dei titoli perdono l’assonanza, senza però abdicare all’accuratezza di significato – si scoprono i termini di quell’ossimoro concretissimo che sono le rovine con il loro duplice destino, sottese tra la fine e l’eternità.

Mondo-rovineC.L. Clérisseau, Stanza delle rovine (1766)