«Sò invecchiato». Se la spiega così, Edoardo Leo, l’inversione di tendenza nella sua carriera. Da attore di commedie di successo – Smetto quando voglio, Non ci resta che il crimine, FolleMente – l’attore romano, 53 anni, sempre più spesso si ritrova al centro di storie che hanno a che fare con il dolore. Succede anche con Per Te di Alessandro Aronadio, passato alla Festa di Roma, ad Alice nella città, e al cinema da oggi, da lui co-prodotto e interpretato. La storia (vera) è quella di un papà, Paolo (Edoardo Leo), cui prima dei cinquant’anni viene diagnosticato un Alzheimer precoce. E che sceglie di restare vicino alla moglie Michela (Teresa Saponangelo) e al figlio Mattia (l’esordiente Javier Francesco Leoni): il vero Mattia, undici anni, ieri alla Festa, è stato nominato Alfiere della Repubblica dal Presidente Sergio Mattarella per «l’amore e la cura con cui segue quotidianamente la malattia del padre».
Ma lei non era l’eroe delle commedie?
«Mi sono invecchiato: dopo i 50 anni mi interessano altri temi. Magari sarebbe stato più facile fare qualche commedia in più, ma ora posso scegliere. Senza calcoli di carriera».
I cinema languono: produrre un film che parla di malattia di questi tempi è un azzardo?
«Sì, anche se più che un film sulla malattia lo definirei un film sull’importanza del tempo. Lo vedi e ti viene voglia di tornare a casa e abbracciare i tuoi figli. Non passa un messaggio di tristezza, ma di amore».
Lei con la gestione del tempo com’è messo?
«Mi sono messo in discussione. Per anni mi sono scusato con me stesso usando l’alibi che “conta più la qualità del tempo che trascorri con le persone, non la quantità”. Invece la quantità conta. È difficile conoscere una persona se non passi con lei del tempo. Con i figli specialmente».
Con il suo lavoro e due figli (Francesco e Anita, avuti dalla moglie Lavinia Marafioti), lei ci riesce?
«Diciamo che cerco di essere un genitore più presente. Ho imparato che posso mostrare ai miei figli la mia fragilità senza perdere autorevolezza. Anzi: non essere un monolito è un punto di forza».
Ha incontrato i veri protagonisti della vicenda?
«Stavolta no. Di solito lo faccio, ma ho evitato. Non volevo rischiare di fare l’imitazione, non sarebbe stato corretto. Ho incontrato Paolo e Mattia solo a fine film. Paolo ora vive in una Rsa. Oggi (ieri, ndr) è il suo compleanno».
Se dovesse riassumere in una frase cosa le ha lasciato questo film?
«Spero che i miei figli, quando toccherà a loro prendersi cura di me, possano accudirmi con lo stesso amore di Mattia. Ho vissuto l’Alzheimer in famiglia, mio papà si è preso cura di nonna. La lavava, le faceva il bagno. Non lo scorderò mai».
Il film parla anche di fallimento. “Si può vincere perdendo”, dice il regista. È d’accordo?
«Certo. Bisogna sempre correre il rischio di deludere qualcuno. Dalle vittorie non si impara. Si impara dai fallimenti».
E lei quando avrebbe fallito?
«Ho vissuto talmente tanti fallimenti, in 31 anni di mestiere… le cose belle mi sono arrivate dopo i 40. Dai 20 ai 40 non sono mai stato l’attore del momento. Prima del mio esordio alla regia sono stato cacciato dal set di una fiction dopo tre settimane di riprese. Ho pensato che fosse finita. Poi mi sono detto: non mi offrono i ruoli? Me li scrivo io».
Tornerà presto alla regia?
«No, ora mi sta prendendo molto la produzione, sto sviluppando altri progetti, anche di altri. Mi prendo una pausa da regista. È inutile fare un film tanto per farlo, se non hai la storia giusta».
E da attore?
«A gennaio uscirà il film nuovo di Massimiliano Bruno, 2 cuori e 2 capanne. Si parlerà di coppie, ma in modo abbastanza politico e sociale. Come in tutti i suoi migliori film».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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