di
Angiola Petronio
Salvata dai militari e vigili del fuoco dopo l’esplosione del casolare: è ancora attaccata ai tubi in terapia intensiva. Era la «portavoce» della protesta
Lei. La Maria Luisa Ramponi. Quella che, dice chi l’ha conosciuta «fa cambiare l’umore dei fratelli, perché anche se sembra che sia Franco a comandare, è lei che decide», nonostante fra i tre sia la minore. Che «con Franco e Dino è nata tra le vacche. E quelle sono la loro famiglia. E se a uno che è nato tra le vacche provi a portargliele via, allora devi stare attento».
Lei, la Maria Luisa. Che adesso in paese viene identificata con un solo epiteto. «La maledetta». Quella che la vita ce l’ha ancora sospesa, intubata e attaccata ai macchinari della terapia intensiva per respirare. La più grave dei tre feriti ricoverati all’ospedale di Borgo Trento. Per il carabiniere assistito al Centro grandi ustionati la prognosi è stata sciolta, ed è vigile e senza febbre. L’altro militare dell’Arma che invece è in terapia intensiva toraco-vascolare è stazionario. Due di quelli per i quali lei, Maria Luisa, quando è stata estratta dalle macerie proprio dai carabinieri ha avuto una sola parola. «Bastardi». Lei che, anche nel novembre scorso quando con i fratelli si era asserragliata in casa saturandola di gas e minacciando di far saltare tutto, teneva le fila della negoziazione con le forze dell’ordine. Lei che lanciava i proclami dei fratelli Ramponi con i giornalisti.
Quella «negoziazione» e quella «cinturazione» dei luoghi che lunedì sera non ci sono stati, facendo preferire un intervento «a sorpresa». Elemento che in realtà è mancato, tanto che anche i vicini di casa si erano accorti della presenza dei carabinieri. La Maria Luisa che con quel suo gesto – immortalato dalle body cam di chi è intervenuto – di innescare con un accendino una molotov per poi gettarla sulle bombole di Gpl che poco prima aveva aperto, ha fatto saltare anche tutte le variabili che a tavolino potevano essere previste. Quelle comunque difficili da calcolare, per un elemento tanto poliedrico quanto subdolo come il Gas di Petrolio Liquefatto, la cui prerogativa è quella di ottenere da una quantità relativamente piccola di liquido una notevole quantità di gas vaporizzato. «Tutto dipende dalla sfortuna che si ha», spiega un ingegnere esperto di trasporti pericolosi che preferisce restare anonimo. «L’esplosione avviene se il gas si trova in un range di concentrazione.
Vuol dire che non deve essere più di tot e meno di tot. E serve l’aria, l’ossigeno. Quindi, in teoria, se la stanza è satura di gas e io accendo un fiammifero non succede nulla. Stabilire quanto tempo ci vuole per entrare in quell’intervallo o uscirne e il tempo che serve per innescare l’esplosione non è facile, perché dipende dalla quantità di gas che sta uscendo, dal volume della stanza e dall’aria presente». Quell’aria che è arrivata anche perché, come viene insegnato e fa parte dei protocolli, quando hanno sentito l’odore del gas e i carabinieri hanno rotto le finestre.
«Noi diamo per scontato che il gas si sia distribuito uniformemente, ma non è così per le variabili che dicevamo. E tutto diventa secondario davanti al fatto che quella donna con la molotov è andata a innescare direttamente all’uscita della bombola». L’imprevidibilità. «Davanti a quella non c’è niente da fare», dice l’esperto. «Aprire le finestre è la cosa giusta da fare. Ma ci sono anche casi di incendi in cui rimane solo il fumo, si rompono i vetri e l’incendio riprende. La verità è che le esplosioni sono delle brutte bestie, impossibili non solo da prevedere ma difficili anche da scongiurare e gestire. E qui stiamo parlando di personale esperto, che fa un sacco di esercitazioni. Ma se quella donna ha innescato direttamente vicino alla bombola, non c’era niente che nessuno avrebbe potuto fare per evitare l’esplosione».
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17 ottobre 2025
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