Come si fa a passare, nel giro di poche ore, dal negare il ruolo di Facebook nell’elezione di Donald Trump nel 2016 a ventilare la possibilità di trasformare il social network di cui si è proprietari in un “giornale digitale”, per sostenere la propria personale corsa alla presidenza degli Stati Uniti?

Si può, se si è il fondatore di Facebook (oggi Meta): Mark Zuckerberg. Che nel memoir “Gente che se ne frega” – scritto dalla ex responsabile delle politiche globali di Facebook, Sarah Wynn-Williams, e appena uscito in Italia per la nuova Silvio Berlusconi editore (Mondadori) – viene ritratto come un uomo distaccato dalla realtà, che in pochi anni passa da un apparente idealismo a un totale cinismo, che sembra scoprire anche i più elementari meccanismi della politica solo quando ci si scontra, restandone in parte disgustato e in parte affascinato. E che è circondato da uno staff incapace – e forse nemmeno intenzionato – a placarne le ambizioni e la spregiudicatezza.

Il posto privilegiato di Wynn-Williams

Ma il racconto di Wynn-Williams non inizia dipingendo Facebook e Zuckerberg come il male assoluto. Al contrario, questa storia inizia con il classico racconto formativo dei social network, mostrando come le loro potenzialità positive – dal punto di vista politico e informativo – fossero state espresse nel corso delle Primavere Arabe, che nel 2011 mostrarono (anche se il loro ruolo è stato probabilmente esagerato) come Facebook e Twitter potevano diventare strumenti per diffondere democrazia e libertà.

Nata nel 1979 in Nuova Zelanda, Sarah Wynn-Williams non è la prima “gola profonda” ad aver raccontato il lato oscuro di Facebook. È però la prima ad aver fatto parte dell’inner circle: una persona che sul jet privato di Mark Zuckerberg gli sedeva a fianco e che si confrontava quotidianamente con Sheryl Sandberg, Elliot Schrage, Marne Levine, Joel Kaplan e gli altri pesi massimi del social network.

Eppure, la sua relazione con Facebook parte con un rifiuto. Wynn-Williams lavora come ambasciatrice della Nuova Zelanda alle Nazioni Unite quando, nel 2009, avviene quella che lei definisce “l’epifania Facebook”: si rende conto di quanto questo social network possa diventare – nel bene o nel male – uno strumento potentissimo e desidera entrare a far parte del team, per guidarlo nel labirinto della politica, nelle relazioni con i governi e per aiutarlo a fronteggiare “la rivoluzione che sta arrivando”.

Quando però incontra la vicepresidente delle politiche pubbliche di Facebook, Marne Levine (tra le altre cose ex assistente speciale di Barack Obama), quest’ultima non rimane colpita dalla visione di Wynn-Williams e dalla sua strategia per bilanciare le regolamentazioni dei governi con gli interessi di Facebook. L’idea viene bocciata e Wynn-Williams non viene assunta.

Il ruolo delle Primavere Arabe

La situazione cambia proprio con le Primavere Arabe, che mostrano come la visione politica dell’autrice di “Gente che se ne frega” fosse corretta, portando alla sua assunzione come responsabile delle politiche pubbliche globali. Ed è qui che inizia il vero racconto di Sarah Wynn-Williams: il viaggio, che durerà fino al 2016, da giovane impiegata idealistica a ex dirigente disillusa.

I problemi iniziano subito. Wynn-Williams si scontra con la mentalità ingegneristica tipica della Silicon Valley: in cui l’unico obiettivo è la crescita degli utenti, in cui i potenziali effetti collaterali dei social network non vengono nemmeno presi in considerazione e dove l’attenzione alla politica – e alle politiche pubbliche di Facebook – viene considerata un inutile intralcio (soprattutto perché non porta profitti).

Il progetto “neocoloniale” di Internet.org

Facebook sarà presto costretto a rivedere questa posizione, stretto tra la crescita mondiale del social network e gli scandali in cui si trova invischiato: dalle accuse di “colonialismo digitale” mosse nei confronti del progetto internet.org (con cui Zuckerberg mirava a fornire gratuitamente una versione scheletrica di internet nei paesi in via di sviluppo, per aumentare gli utenti di Facebook) alle relazioni opache con la Cina; dai drammatici eventi in Myanmar del 2014 (quando Facebook venne utilizzato per aizzare l’odio etnico contro la minoranza dei rohingya) alle accuse di aver avvantaggiato nel 2016 la vittoria della Brexit e la prima elezione di Donald Trump.

Proprio il ruolo giocato da Facebook nella vittoria di Trump riveste una parte centrale in “Gente che se ne frega”: Zuckerberg considera inizialmente le accuse di aver influenzato le elezioni statunitensi “pura follia”, parole che pronuncia nel novembre 2016 dal palco della conferenza Techonomy.

Pochi giorni dopo, Zuckerberg parte per il Perù per partecipare a un vertice APEC (l’organismo di cooperazione tra Asia e Pacifico): durante il volo, ascolta prima il suo vicepresidente delle comunicazioni, Elliot Schrage, spiegargli in dettaglio “tutti i modi in cui Facebook ha, in buona sostanza, consegnato le elezioni a Donald Trump”, lavorando anche a stretto contatto con i responsabili della campagna elettorale. E poi, durante il vertice, sentirà l’allora – e ancora per poco – presidente degli Stati Uniti Barack Obama accusare Facebook di avere “un ruolo distruttivo a livello globale”.

Zuckerberg candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America

Secondo la ricostruzione di Wynn-Williams, è proprio questo doppio colpo che – invece di trasformarsi in una presa di coscienza – condurrà Zuckerberg a elaborare quello che fino a oggi è stato il suo più ambizioso (anche se di breve durata) progetto: candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti. Durante il volo di ritorno dal Perù, preso atto della capacità d’influenza di Facebook, inizia a pianificare un tour per i classici “swing states” statunitensi (quelli decisivi ai fini elettorali), durante il quale mangiare pollo fritto alle fiere, visitare i rodeo, andare a trovare gli operai che lavorano in fabbrica e tutte le altre attività tipiche dei politici in campagna elettorale.

Se non bastasse, Zuckerberg immagina anche di “rifare l’intero ecosistema dell’informazione” mettendo Facebook al centro; trasformandolo in una sorta di gigantesco quotidiano online globale. “L’enorme portata di questa prospettata presa del potere ci fa ammutolire”, scrive Wynn-Williams.

“Mark potrebbe controllare come si creano le notizie, oltre al modo in cui l’algoritmo le sceglie e le diffonde. Cosa rimane e cosa no. Chi è sulla piattaforma e chi no. Una cosa che tornerebbe sicuramente utile se si candidasse alla presidenza”.

Il progetto presidenziale di Zuckerberg verrà accantonato solo dopo aver effettivamente svolto, nella primavera 2017, il tour negli Stati Uniti, probabilmente a causa della cattiva stampa e degli scarsissimi indici di gradimento. Ma è la più lampante dimostrazione di ciò che Wynn-Williams scrive: “Immagino che sia così che si vive in una bolla, come fa Mark. Una bolla, però, implica una fragile trasparenza, uno spazio diafano da dove guardare la vita normale, appena al di là della tua portata. Quella che abita Mark, invece, è più simile a una cupola spessa e opaca, una fortezza oscura che lo separa dal resto del mondo”.

Il fallimento politico. Il fallimento del metaverso

Una bolla spessa e impenetrabile che lo porta a concepire non solo il tour presidenziale, ma probabilmente anche il fallimentare progetto del metaverso (immaginando che l’umanità non vedesse l’ora di traslocare in un ambiente interamente digitale) e poi a pensare che la società occidentale possa risolvere l’attuale “epidemia di solitudine” grazie alla compagnia artificiale dei chatbot.

Nel memoir di Sarah Wynn-Williams non ci sono però solo gli aspetti più politici legati a Zuckerberg e al suo social network. Nel capitolo “Targetizzazione emotiva” – forse il più inquietante del libro – emerge soprattutto il cinismo con cui Facebook applica il capitalismo della sorveglianza: “Nell’aprile 2017”, si legge, “trapela un documento riservato che mostra che Facebook offre agli inserzionisti l’opportunità di rivolgersi agli utenti fra i 13 e i 17 anni di tutte le sue piattaforme, tra cui Instagram, in momenti di vulnerabilità psicologica (…). O di farlo quando si preoccupano per il proprio aspetto fisico e vorrebbero dimagrire”.

Monetizzare il lato debole delle persone, dei ragazzini

È così che, per fare solo due esempi, gli inserzionisti possono targetizzare con precisione chirurgica i loro prodotti dimagranti ad adolescenti che si lamentano del proprio corpo o – in uno dei casi riportati nel libro – promuovere rossetti e altri prodotti per il viso a chi ha cancellato un selfie subito dopo averlo pubblicato su Instagram. “Questo genere di sorveglianza e monetizzazione del senso di inadeguatezza di ragazzini e ragazzine è un passo concreto verso il futuro distopico che i detrattori di Facebook temevano da tempo”, chiosa Wynn-Williams.

A completare il quadro della pesante atmosfera raccontata in “Gente che se ne frega” ci sono le accuse di molestie a Joel Kaplan, al tempo vicepresidente delle politiche globali e oggi presidente degli affari globali di Meta; la denuncia del “doppio standard” di Sheryl Sandberg, la cui fama di donna d’affari femminista non è rispecchiata nel racconto dei suoi comportamenti con colleghi e colleghe; l’analisi dell’assurda concentrazione di denaro e potere nelle mani di una manciata di ceo del settore tecnologico (quelli che oggi vengono chiamati “broligarchi”) e molto altro ancora.

Le accuse di Zuckerberg: “Il libro mi diffama”

Tutti temi sgraditi a Meta, che ha infatti attivamente cercato di bloccare il libro ed è riuscito temporaneamente a impedire che l’autrice lo promuovesse negli Stati Uniti: “Il libro include accuse diffamatorie e non vere sui dirigenti ed è un mix di affermazioni superate e già in precedenza riportate sull’azienda”, ha affermato Meta in un comunicato in occasione dell’uscita statunitense, sostenendo inoltre che Wynn-Williams sia stata licenziata “per il suo scarso rendimento e il suo comportamento tossico”.

Meta aveva inoltre richiesto, con una lettera formale inviata prima della pubblicazione, il diritto di fare fact-checking dei contenuti presenti nel libro. Oltre ad aver involontariamente aiutato la campagna promozionale di “Gente che se ne frega” (subito diventato “il libro che Meta non vuole farvi leggere” e balzato in cima alle classifiche statunitensi), la vicenda ha un che di paradossale: la stessa società che ha rinunciato – in nome di una presunta libertà d’espressione – a monitorare e fare fact-checking dei post che circolano su Facebook, ha chiesto di verificare ufficialmente i contenuti di un libro e cercato di boicottarne l’uscita. Difficile non cogliere l’ironia.