di
Paolo Mereghetti
Valerio Mastandrea e Valeria Bruni Tedeschi protagonisti del dramma. Il regista: «Scavo nel dolore di un uomo che nasconde un segreto»
Perché un professionista affermato (scopriremo che si tratta del socio di un importante studio di avvocatura) decide di tagliare i ponti con tutto e con tutti per ritirarsi in una stalla riattata in piena campagna, evitando ogni contatto? Cosa nasconde Adriano Sereni (Valerio Mastandrea) dietro una barba che vorrebbe ispida come il suo carattere? Per spiegare chi si è inventato come protagonista del suo ultimo film, «Cinque secondi», presentato ieri ala Festa di Roma, Paolo Virzì usa prima una categoria socio-antropologica («è un borghese di Roma Nord» e chi ha un po’ di consuetudine con le polemiche propagandistico-elettorali sa cosa c’è dietro quella definizione: persona colta, affluente, progressista se non addirittura di sinistra, per dirla in soldoni) e poi usa la psicologia: «Il mio film vuole essere un percorso dentro il lutto, per scavare nell’abisso di un persona che vuole — o meglio: deve — mettere in discussione la propria vita».
Per sapere qual è la vita con cui Adriano fa così fatica a fare i conti, ci vorrà un po’ di tempo, perché la sceneggiatura (che il regista ha scritto col fratello Carlo e con Francesco Bruni) sembra prendersela comoda, a divagare e a distrarre l’attenzione dello spettatore verso altri argomenti. Come il rumoroso arrivo di una brigata di ventenni decisi a ridare nuova vita ai campi che confinano con l’eremo di Adriano. E la sua solitudine, difesa con rabbia e con stizza, si vede costretta, obtorto collo, a fare i conti con un confronto che sembra dargli particolarmente fastidio.
I giovani sono in parte abusivi (perché non hanno chiesto il permesso a nessuno), in parte autorizzati perché chi li guida è la giovane nipote degli antichi proprietari, la contessina Matilde (Galatéa Bellugi). E sarà proprio lei, con la sua sfrontatezza, ad aprire una prima breccia nelle difese di Sereni, spingendo il film sulla strada dello scontro generazionale: l’uomo maturo alle prese con una gioventù che sembra incarnare tutti i valori (e le energie) che lui fa di tutto per lasciare fuori dalla porta. Ma in fondo è una pista (quasi) falsa: non è il confronto che interessa a Virzì, piuttosto la possibilità di mettere il suo protagonista di fronte a quella stessa cosa da cui sembra voler fuggire: la propria responsabilità di genitore.
«La loro presenza — continua Virzì — lo costringe a interrogarsi su cosa voglia dire stare insieme agli altri. Grazie a loro, questo solitario misantropo torna a farsi le domande a cui sembrava voler sfuggire». Perché è chiaro che Adriano nasconde un segreto: è quello che ogni giorno lo spinge a mandare un messaggio a qualcuno che non sembra interessato a rispondere e che invece Giuliana (Valeria Bruni Tedeschi), una collega di lavoro che dietro la sua stringata efficienza fa intuire un profondo spirito se non materno almeno sororale e che a fatica riesce a superare i suoi no, torna a ricordargli.
Così pian piano scopriamo che nel passato di Sereni c’è qualcosa che ha riguardato la sua famiglia, talmente grave da aver spinto l’ex moglie (Ilaria Spada) a intentargli un processo, da cui lui non sembra nemmeno volersi difendere. Ed è a questo punto che il doppio cammino del film diventa più chiaro perché l’invadente Matilda si scopre incinta e lo spirito protettivo di Adriano non può accettare che la ragazza non si prenda cura della sua gravidanza: accusato dall’ex moglie di non essersi preoccupato abbastanza della propria figlia, l’uomo finisce per fare da «padre putativo» alla futura mamma, difendendo anche il loro diritto a coltivare quelle terre o comunque a non venirne sfrattati.
Ma è a questo punto che il film sembra «ribellarsi» ai suoi sceneggiatori, per assumere una valenza più grande, quella che gli permette di andare oltre la semplice trama per scavare, usando le stesse parole del regista, «nell’abisso che una persona si porta dentro, nel percorso dentro il suo lutto». Lasciamo allo spettatore di scoprire come il percorso cinematografico troverà una soluzione e come giustificherà il titolo, certo è che vedendo «Cinque secondi» non si può non pensare al dolore e alle rabbie con cui tutte le famiglie devono fare i conti. Finendo addirittura per smentire Tolstoj: pur nelle loro diversità, anche le famiglie infelici possono soffrire nello stesso modo, dentro e fuori dallo schermo.
17 ottobre 2025
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