Avanti popolo, si torna indietro. La Grecia, culla della democrazia, ha varato la giornata lavorativa di 13 ore. Facoltative e ben remunerate, ci mancherebbe, però intanto la nuova legge approvata dal Parlamento ellenico rompe un tabù e inverte una tendenza. Quando l’ho saputo, quasi non ci volevo credere. Ridurre il tempo dedicato al lavoro era stata una delle conquiste della modernità, e procedeva da decenni in modo graduale ma, pensavo, inesorabile. Certo, dietro il paravento legalitario si è sempre mossa una realtà di tutt’altro segno, e ieri la ministra greca Niki Kerameos l’ha spiattellata in faccia a tutti con parole così poco ipocrite da apparire brutali: «Ci sono persone che già adesso fanno due o tre lavori per arrivare a fine mese. Noi daremo loro la possibilità di prendere gli stessi soldi senza doversi spostare da un posto all’altro».
Rinfoderati i sogni umanisti nell’album dei rimpianti, quel poco di politica che resta si è dunque assegnata l’unico compito di regolamentare l’ineluttabile, rinunciando definitivamente all’idea di cambiarlo o almeno di metterlo in discussione. Un paio di generazioni sono cresciute sventolando l’utopia del «lavorare meno, lavorare tutti». Invece lo slogan del nuovo pragmatismo recita «lavorare in meno, lavorare tanto». Da una parte un esercito di disoccupati e sottooccupati. Dall’altra una minoranza che, per conservare il proprio tenore di vita, sarà costretta a faticare sempre di più. Ma siamo proprio sicuri sia questo il mondo che vogliamo?
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18 ottobre 2025
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