La scadenza ha carattere formale, ma alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi le conseguenze potrebbero essere epocali. L’Iran ha dichiarato di ritenersi “svincolato” da ogni restrizione imposta al suo programma nucleare dal Joint Comprehensive Plan of Action, il patto firmato nel 2015 con gli Stati Uniti guidati allora da Barack Obama e i paesi del cosiddetto “5+1”.
In una lettera ai vertici delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza, il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha affermato che la Risoluzione 2231 del Consiglio, che sanciva l’entrata in vigore dell’intesa, è “scaduta e terminata” oggi, 18 ottobre 2025. Pertanto “tutte le disposizioni dell’accordo, comprese le restrizioni previste per il programma nucleare iraniano e i meccanismi correlati, sono considerate concluse” e ora “il Paese è vincolato esclusivamente dai suoi diritti e obblighi ai sensi del Trattato di non proliferazione nucleare, senza ulteriori limitazioni”. Teheran ha definito inoltre “illegale e nulla” la recente decisione delle Nazioni Unite di attivare il meccanismo di “snapback” e di reimporre sanzioni contro l’Iran sospese in virtù del patto del 2015, sulla base della richiesta dei tre firmatari europei del Jcpoa (Regno Unito, Francia e Germania) motivata con il mancato impegno del Paese nei confronti dell’accordo sul nucleare a partire dal 2019. In termini pratici, quindi, la Repubblica islamica ritiene di poter sviluppare e testare liberamente missili balistici e rafforzare la cooperazione militare con Paesi come Russia e Cina, senza più essere vincolata da un quadro giuridico Onu.
La mossa segna l’inizio di una fase molto delicata nella crisi nucleare iraniana. In base al Jcpoa, Teheran accettava limiti rigorosi al proprio programma nucleare e missilistico in cambio della revoca di gran parte delle sanzioni internazionali. La Risoluzione 2231 conteneva però una serie di clausole temporanee — in particolare sulle restrizioni missilistiche — destinate a scadere dopo dieci anni, ovvero il 18 ottobre 2025. Con la fine di queste misure, decadono automaticamente i vincoli Onu su trasferimenti di tecnologie missilistiche, autorizzazioni preventive per l’export di armamenti e una parte dei controlli multilaterali.
Un passaggio fondamentale che ha contribuito a indebolire l’accordo risale al 2018, quando Donald Trump annunciò il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal Jcpoa. L’amministrazione repubblicana reintrodusse sanzioni durissime sull’economia di Teheran colpendo petrolio, banche e commerci internazionali. La mossa rese di fatto fragile l’intero accordo: da un lato, indebolì il meccanismo multilaterale di controllo, dall’altro spinse l’Iran a violare progressivamente alcuni limiti nucleari, in risposta alle pressioni economiche subite. Fu quella decisione a creare le condizioni per l’attuale impasse, culminata ora con la scadenza della Risoluzione 2231.
L’ultima accelerazione è arrivata poche settimane fa. Il 28 agosto Regno Unito, Francia e Germania – il cosiddetto E3 – hanno notificato al Consiglio di Sicurezza l’attivazione del meccanismo di “snapback”, strumento previsto dalla Risoluzione 2231 che consente a uno qualsiasi dei firmatari dell’accordo di denunciare “violazioni significative” da parte dell’Iran. In tal caso, il Consiglio di Sicurezza ha 30 giorni per approvare una risoluzione che confermi la revoca delle sanzioni. Se ciò non avviene, le vecchie sanzioni Onu si ripristinano in automatico, senza possibilità di veto da parte di nessuno Stato membro.
L’attuazione della clausola, tuttavia, è molto problematica. In primis perché Russia e Cina contestano la legittimità dello “snapback”, sostenendo che la risoluzione è ormai scaduta e quindi non esiste più un meccanismo da attivare. Inoltre, secondo Mosca e Pechino, l’E3 non avrebbe piena autorità per farlo perché l’equilibrio originario dell’accordo è stato rotto dal ritiro unilaterale degli Stati Uniti nel 2018. In secondo luogo, l’Onu non ha ancora formalizzato in via ufficiale il ripristino delle sanzioni. Questo vuoto istituzionale crea un precedente delicato: per Londra, Parigi e Berlino le sanzioni sono già in vigore per effetto automatico; Mosca, Pechino e Teheran sostengono il contrario.
La terza difficoltà è politica. Se lo “snapback” fosse attuato pienamente, significherebbe il ritorno in vigore di tutte le sanzioni Onu precedenti al 2015: embargo sulle armi, restrizioni finanziarie, divieti su componenti sensibili per il programma nucleare e missilistico. Ma senza il via libera del Consiglio di Sicurezza non ci sarà un meccanismo collettivo per far rispettare le misure. L’E3, insieme agli Stati Uniti, dovrà quindi affidarsi a coalizioni ad hoc e sanzioni unilaterali o coordinate, fuori dal quadro Onu.
Lo scenario che si apre ora è incerto. Con meno vincoli multilaterali, il regime degli ayatollah si sente autorizzato a espandere il proprio programma missilistico, rafforzando la pressione su Israele e sui Paesi del Golfo in un contesto mediorientale già segnato dalla guerra a Gaza e dai conflitti per procura tra Iran e Stati Uniti.
La scadenza della Risoluzione 2231, quindi, non è solo un passaggio tecnico: segna la fine di un ordine multilaterale costruito nel 2015 e l’inizio di una fase di incertezza strategica. L’Iran afferma di potersi muovere con maggiore libertà, l’Occidente dispone di strumenti multilaterali sempre più deboli e il Consiglio di Sicurezza si trova spaccato tra blocchi contrapposti. Il regime ha lasciato la porta aperta al dialogo, ribadendo il proprio “impegno fermo a favore della diplomazia“, ma la partita per raggiungere un nuovo equilibrio rischia di essere più difficoltosa e meno regolata.