Il vertice fra Donald Trump e Vladimir Putin che secondo gli auspici si terrà prossimamente a Budapest richiama fatalmente alla memoria quel Budapest Memorandum, sottoscritto nel 1994 nella capitale ungherese da Stati Uniti, Federazione Russa, Regno Unito e Ucraina e siglato dal Presidente ucraino Leonid Kučma, da Boris Eltsin, Bill Clinton e John Major. Le potenze firmatarie premevano perché le nuove repubbliche indipendenti sorte dopo il collasso dell’Unione Sovietica rinunciassero agli armamenti atomici e aderissero al Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp). In particolare l’Ucraina, con le sue 1.900 testate si ritrovava in possesso di una parte consistente dell’arsenale nucleare sovietico, rendendola temporaneamente la terza potenza nucleare del mondo. Tra le clausole del memorandum ce n’era una che imponeva ai Paesi garanti di rispettare l’indipendenza e la sovranità dell’Ucraina entro i suoi confini esistenti, astenendosi dall’uso della forza e anche dalla minaccia stessa di usarla.
Il memorandum non era giuridicamente vincolante, ma aveva valore di accordo politico. Le cose, come si è visto, sono andate diversamente. Maidan, l’Anschluss della Crimea del 2014, i mai rispettati Accordi di Minsk, la guerra a bassa intensità nel Donbass, l’aggressione russa ai confini ucraini del 2022 mascherata dal Cremlino come “operazione speciale” sono il corredo finale di una disputa fra Kiev e Mosca che è cominciata in quegli anni ormai lontani.
Ora Trump si appresta a dar vita al secondo cantiere di pace, dopo gli accordi faticosamente raggiunti in Medio Oriente fra Israele e Gaza. Il vaso di coccio, ancora una volta, è Zelensky. I missili Tomahawk, che Kiev agognava come arma di interdizione e di deterrenza, al momento restano al chiuso negli arsenali statunitensi. «Penso che ci siano ottime chance che la guerra possa finire rapidamente. Anche senza il bisogno di consegnare i missili Tomahawk all’Ucraina».
Un gelido déja vu. Ma chiudere il conto con le sofferenze, le stragi, l’agonia di un popolo, l’inutile massacro quotidiano che si replica da tre anni sul lungo confine fra Russia Ucraina senza veri vincitori ma soltanto dei vinti ha il suo prezzo.
Difficile stabilire se quella che si profila fra Stati Uniti, Russia e Cina sia una Yalta a beneficio dei più forti. In certa misura lo è, come è innegabile che nel castello di Buda dove presumibilmente si terrà il vertice convergono tre differenti tipi di populismi, quello roboante di Trump, quello nazionalista di Putin e quello sovranista del premier che offre la dimora del vertice ai grandi della Terra, Viktor Orbán, ospitando un leader colpito da un mandato di arresto della Corte penale internazionale che l’Ungheria non ha alcun intenzione di rispettare.
L’Europa, le democrazie liberali, i vassalli come Starmer, i sognatori di grandeur perdute come Macron, restano al palo. Davanti c’è un’ipotesi di tregua. Poi di pace. Trump la chiede con energia, per tornaconto personale e per legittima vanità. La pace, alla fine, conviene più della guerra. Più dei miliardi spesi in armamenti. Tutti lo sanno, a cominciare dai grandi leader del mondo. Ma occorre che qualcuno la reclami con forza. Perfino The Donald, il tycoon di Mar-a-Lago, è adatto al compito.