Questa è la storia di padre Tien, un reverendo che vive a Phraek Nam Daeng, un villaggio thailandese ai margini della storia, del tempo, tra una giungla che scompare e le inondazioni che si intensificano. Un posto in cui le speranze non hanno più casa se non negli occhi e nei cuori dei bambini, gli unici capaci in qualche maniera di immaginare il futuro, di offrirgli dimora.
Questa è la storia di quei bambini e delle storie dense di magia e mistero che padre Tien racconta loro. Storie incantate che accendono la fantasia dei piccoli e che sono in grado di evocare figure sparite o mai esistite. Elefanti selvatici, farfalle bianche, tigri che compaiono in fondo alla giungla, indomite forse animate da uno spirito maligno.
I BAMBINI ASCOLTANO e imparano ogni racconto e così lo riproducono, come in una messa in scena, di notte, quando hanno troppo freddo o troppa fame, le parole così riecheggiano e scaldano. Le speranze si alimentano come davanti a un fuoco, il tempo si ferma e si rigenera, i bambini – nel loro minimo mondo privo di tutto – gioiscono. Utopia accoglie nel proprio catalogo lo scrittore thailandese Saneh Sangsuk, Una storia vecchia come la pioggia, tradotto dal thai da Alice Cola (pp. 163, euro 19.00) è il primo dei libri di questo autore che vede la luce in italiano.
Sangsuk è uno dei maggiori scrittori thailandesi, autore di romanzi, poesie e racconti, ma è anche un fine traduttore (tra gli altri, Kafka ed Hemingway). Il passo della sua prosa è molto ritmato e magico, così che leggendolo si ha l’impressione di diventare uno di quei bambini che ascoltano padre Tien. Si entra in una sorta di flusso e si presta ascolto come nei racconti orali che ci accompagnavano di sera. Anche per questo motivo il romanzo si articola in un solo capitolo che comincia e finisce senza pause, senza respiro. Uno dei molti aspetti interessanti riguarda i singoli paragrafi, molto spesso hanno la frequenza e il tono di un incipit, come se ogni gruppo di frasi suonasse come un inizio.
OGNI STORIA, vecchia come la pioggia o meno, prende vita di continuo, sembra volerci dire Saneh Sangsuk. Leggiamo frasi di questo tipo, con questo suono: «Era tutto immobile e silenzioso, il villaggio sembrava così fragile in quel paesaggio vasto e solitario, ricordava quasi un oggetto insignificante, quasi effimero. L’esistenza della gente e delle cose che questa gente aveva creato appariva del tutto trascurabile per il cielo e per la terra». Ai bordi del romanzo, ai margini del villaggio di Phraek Nam Daeng, la realtà scompare insieme alla terra inondata dalle acque, alla giungla che rimpicciolisce, alla natura che si prende tutto, fino all’ultima speranza dell’uomo.
La fragilità però ha dentro di sé sia il tremore che la ferita, è un sentimento, è un bambino. Perciò, ci dice Sangsuk, niente può mai finire per davvero finché un uomo molto vecchio è capace di raccontare una storia e dei bambini sono in grado di ascoltarla.