I ritratti de Il bosco del futuro, giunti alla 27ª puntata, sono la normale prosecuzione delle intervista raccolte dal giornalista Paolo Griseri. Il suoi 39 protagonisti de Il bosco dei saggi sono diventati un libro che ricorda l’autore, scomparso a ottobre 2024.
Racconta Guglielmo Castelli che il segreto del suo lavoro, in fondo, sta in una frase letta su un muro qualche tempo fa: «Volevo dire al treno che passa una sola volta nella vita: vado anche a piedi». Pittore, nato «sotto la neve dell’ultimo giorno» del 1987, è una delle voci più riconosciute dell’arte italiana contemporanea. Il Financial Times gli ha dedicato un lungo servizio parlando delle sue «visioni fiabesche». E per celebrare i quarant’anni del Castello di Rivoli, il museo lo ha scelto, insieme a Lydia Ourahmane e Oscar Murillo, per creare un’opera pensata per dialogare con le sue stanze, con la luce e con la memoria che le abita.
«Generazione Y, simbolo con braccia divergenti, come uno dei due cromosomi», Castelli non ha mai smesso di vivere e respirare Torino. «Ovunque, in ogni luogo, cerco di mantenere le mie beneducate frivolezze», sorride. «È casa, e come ogni casa porta con sé un alto tasso di amore e tossicità. Ha un alfabeto preciso, una postura fatta di piccole virtù: silenziosa, fiera e un po’ indolente».
L’anniversario
26 Settembre 2025
Sono parole di un artista, ma anche di un uomo deciso a restituire qualcosa a una città che, ammette, è stata fondamentale. «Sono stato a Berlino un anno e mezzo, ho vinto una residenza e sarei potuto restare lì. Il lavoro stava andando bene». Eppure ha scelto di tornare, per restituire qualcosa.
Nel viaggio artistico, spiega, si è nutrito di classici: Licini, Matisse, Balthus, Brueghel, ma anche della tradizione giapponese. «Per far confluire mondi apparentemente così lontani bisogna avere occhi famelici». Senza quelli, dice, si fa un altro lavoro. «La pittura necessita di tempo – ragiona – una parola che fa paura perché prevede un alto tasso di possibile noia e fallimento. Tutti elementi che, in questa contemporaneità, vengono messi al bando».
Per Guglielmo disegnare e leggere, fin da bambino, sono stati «un modo di dare forma al mondo. Quando mi chiedevano cosa vuoi fare da grande, sapevo che avrei fatto un lavoro in ambito creativo. Ma che quel magma lì avrebbe significato diventare artista, è qualcosa che è venuto dopo».
Di sicuro, ricorda, «ho sempre cercato di immedesimarmi negli spazi in cui venivo coinvolto, immaginando e amplificando le storie. Chi, come me, ha avuto spasmi di solitudine ha aumentato drasticamente la narrazione di quello che si immaginava. La parola che diventa immagine e immaginario era la ricetta per trovare la propria identità».
La sua ha preso forma in questo studio a due passi dal Parco Dora, non lontano dalla sede del Kappa, il festival di musica elettronica che ogni anno riempie la periferia nord di centinaia di migliaia di ragazzi. Il laboratorio — tele, giocattoli, colori ovunque — l’ha chiamato «Sweet Baby Motel», una sorta di omaggio ai fratelli Coen e alla loro America un po’ disperata ma capace di sognare. Una volta qui si restauravano pianoforti; ora è un rifugio da cui uscire «la sera, con le mani sporche».
La linea è torinesissima: «Testa bassa, pedalare». Strategia che funziona: nel 2016 Forbes lo ha incluso tra i «30 under 30 Europe: The Arts». Da allora le sue opere hanno girato il mondo, dalla Fondazione Louis Vuitton a Villa Medici, dalla Künstlerhaus Bethanien all’Aspen Art Museum al Centre Pompidou di Metz. Degli «anni felici», gli studi al Liceo Artistico con indirizzo restauro e all’Accademia di Belle Arti, Castelli si porta dietro l’esperienza della scenografia e del teatro: «Mi ha concesso il lusso del dubbio, dei tentativi e dell’errore. La pittura, a sua volta, mi dà la possibilità di rappresentare tutto questo. Io mi sono concesso tantissimo spazio di manovra, per trovare qualcosa che mi somigliasse. E la pittura è la cosa più simile a ciò che amo, a ciò che mi terrorizza».
Castelli, nei suoi quadri convivono cadute, fragilità, desideri. Quanto c’è di autobiografico? Risposta tranchant: «Mi viene in mente Nabokov: “La sua autobiografia era priva di interesse quanto lo sarebbe stata la sua autopsia”».
Torino, vista dalla sua casa affacciata sul Balon, è cambiata ma senza smarrirsi. «Ho iniziato a viverla davvero prima delle Olimpiadi del 2006: era una città estremamente frizzante, con gallerie ovunque. Penso che adesso, rispetto ad allora, ci sia bisogno di mettere in moto energia creativa». Ma anche ora, «nonostante i limiti», resta un gioiello da preservare: «Non ti soffoca, non ti prevarica. L’arte povera è nata qui. Le piazze metafisiche di De Chirico sono queste. Rispetto a Milano la vita costa meno, e resta un luogo in cui, se perdi un’idea, la ritrovi una via dopo».