Il disagio mentale dalla prima gioventù. Gli specialisti, i controlli e i farmaci, le crisi e gli allenamenti. La scrittura e le parole non salvano nel coraggioso romanzo “Lo sbilico” di Alcide Pierantozzi, ma sempre permettono di ricomporre e ricucire…

La scrittura nasce da una cesura, una frattura o ferita profonda, spesso remota e latente, in alcuni casi invece palese, tanto che chi si dedica alla scrittura ne è consapevole.

A volte ci vuole del tempo per arrivare, emotivamente e psicologicamente, attraverso le parole e le pagine, a essa e iniziare non solo a scorgerla, ma finalmente anche a percorrerla e perlustrarla in tutta la sua grandezza e profondità. Così si passa da un libro all’altro, si scrive una storia e poi se ne affronta un’altra, e un’altra ancora, più volte nel corso del tempo, per prepararsi e fare il salto in quel baratro e forse capire, sanare, ricucire e mettere pace, innanzitutto dentro di sé, quindi, nel mondo che circonda e popola, oppure lambisce, le giornate e la vita di chi scrivendo vive. Quando, alla fine, ci si arriva e si inizia a calarsi in quella voragine, inizia una nuova fase tanto della vita reale quanto della vita di carta, fra le righe, sulle pagine.

Alcide Pierantozzi ne Lo sbilico (240 pagine, 19,50 euro), Einaudi editore, è arrivato sul bordo della propria voragine, vi si è calato e, una volta dentro, l’ha percorsa e perlustrata fino alla fine, senza indietreggiare, dubitare, mistificare.

Qualcosa di rotto

Come spesso accade, quello che potremmo definire un percorso di agnizione ha inizio da un sintomo, il disagio mentale che si manifesta nella prima gioventù e che porta inevitabilmente a una sequela di visite specialistiche, prescrizioni farmacologiche, ore e ore di estenuanti esercizi in palestra per liberare il corpo dalle tossine assunte insieme ai farmaci che frenano l’ansia, tengono a bada la mente e consentono di vivere e condurre la propria vita insieme ai familiari — soprattutto la madre, sempre presente, attenta, premurosa — e agli altri, la società.

Qualcosa è rotto, non funziona come dovrebbe e spesso si inceppa nella mente di Alcide, da tempo è così e due sono i momenti in cui il suo equilibrio viene irrimediabilmente compromesso: il primo risale a quando, bambino, deve stare per ore, interi pomeriggi e giornate, immobile, al buio, sotto le coperte e fingere di non esistere, di non respirare, perché la sua vita, la sua esistenza è una colpa, il segno più evidente che il fratellino minore è assente, non c’è più, perché mancato a poche ore dalla nascita. Alcide non sa altro del fratello, soltanto questo e cresce nella sua assenza, senza spiegazioni e un immenso senso di disagio e colpa. Così trova riparo sotto le coperte, dove trova anche forza, nonché compagnia e conforto, nelle parole che cerca e scova nel vocabolario che sfoglia e legge aiutandosi con una torcia. Parole su parole impara a memoria, pomeriggio dopo pomeriggio, giorno dopo giorno, scoprendo così l’ancora di salvezza cui resterà aggrappato per il resto dei suoi giorni, anche ora, oggi.

L’età fragile

Il secondo momento si verifica quando, alle scuole superiori, non viene compreso, ascoltato, aiutato, perché appare svogliato, indifferente, sempre impreparato, anche quando ha studiato, e nessuno cerca né sa capire che cos’abbia, che cosa ci sia dietro i suoi silenzi e atteggiamenti, così viene deriso, umiliato e bocciato nel momento più delicato di sempre: l’adolescenza, l’età fragile per antonomasia.

Dopodiché si susseguono gli specialisti, i controlli e i farmaci, le crisi e gli allenamenti. Nel frattempo, però, Alcide diventa un ragazzo e poi un uomo che ben presto capisce e decide che diventerà uno scrittore perché ha imparato che la realtà non esiste o, almeno, lui non le crede, è fasulla e menzognera, mentre le parole permettono di crearne molte altre e di trovarvi ristoro. Alcide inizia così a scrivere e pubblicare romanzi, fino a quando, oggi, arriva a scrivere il libro dei libri, i suoi, il romanzo in cui decide che non inventerà nulla, o quasi, per narrare in presa diretta come si sta sempre sospesi tra lo stato di normalità e quello del disagio psichico: una vita da “matti”.

Scrittura e vita

Nel racconto tornano pertanto ad alternarsi momenti di ansia e forti crisi, periodi di buio, sfibranti allenamenti in palestra per smaltire i nuovi farmaci, momenti di requie e un costante sbattere contro la presunta normalità del reale e degli altri cui lui sembra inevitabilmente sempre cozzare contro, in un monito costante che a lui quella normalità è preclusa, in ogni sua sfera, specie quella affettiva, relazionale, sessuale, ché gli spetta la condizione dei “matti” e tutti gli aggiustamenti del caso per restare a galla, non crollare e continuare a esistere nel mondo reale e “normale”. E il ritmo narrativo non perde alcun frangente di questa lotta estenuante contro sé stesso, la malattia e il resto del mondo, neppure degli stato d’animo, ma segue e riproduce realisticamente le alterazioni della mente, le sue esplosioni e gli eccessi come pure il ripiegarsi e implodere episodico, i brevi momenti di stasi e requie, i contrasti e le incomprensioni con la realtà esterna e la vita dei presunti normali. Fino a quando il senso della narrazione, di questo libro e romanzo coraggioso, prende corpo, si anima e Alcide recupera frammenti di immagini e memorie, non sue, di quel fratellino neonato, morto prematuramente. Ed è allora che la sua scrittura e la sua vita, ché di scrittura è infarcita, di scrittura e parole si è nutrita e, grazie a esse, si è mantenuta e preservata, prendono corpo e acquistano senso, si spiegano davanti ai suoi occhi e a quelli del lettore, in quanto egli ricompone e comprende quel passato, che non conosce né ricorda, e quella vita strappata e smembrata e, ricucendole a parole le membra, ricollegandola così integra alla memoria familiare, le restituisce dignità.

Se, come dichiara lo stesso autore, non sempre la scrittura e le parole salvano, ma sempre permettono di ricomporre, ricucire e mettere in luce ciò che è stato e ha bisogno di essere visto e compreso, questo è anche quello che fa Lo sbilico con parole e un’intensità proprie della poesia, che sgorga dopo anni e anni di sbilico, incomprensioni e disamore, innanzitutto verso di sé e la propria esistenza.

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