Con l’impresa della Global Sumud Flotilla e della Freedom Flotilla improvvisamente la terra si è ricordata del mare, inteso come strada, della navigazione come modalità per procedere, raggiungere una destinazione altrimenti inespugnabile; e anche il lessico delle cronache che la raccontano sembra rispolverato da lontani libri di avventura se non da ancor più lontane versioni di latino. L’esercito israeliano abborda le barche, l’esercito israeliano intende affondare, si rompe il blocco navale, alcune imbarcazioni riescono ad attraccare; solo che ora non si tratta di un gioco da ragazzi né di esercizi di stile. Mentre i cieli sopra Russia e Ucraina sono sorvolati da flotte di droni pilotati dall’intelligenza artificiale, a Gaza la più acclamata azione di solidarietà e resistenza civile (che va ad aggiungersi al lavoro inesausto e inestimabile di volontari, medici senza frontiere in primis, di 43 organizzazioni umanitarie internazionali e palestinesi) ha il passo antico, dilatato e incognito della traversata.

Ne abbiamo parlato con Björn Larsson, scrittore svedese (i suoi best seller sono pubblicati in Italia da Iperborea, il primo è stato La vera storia del Pirata Long John Silver); docente di letteratura francese all’Università di Lund, già renitente alla leva e per questo finito in carcere per alcuni mesi, pendolare, velista e conoscitore di mari dei Nord. E dell’Italia che è uno dei luoghi in cui vive (si divide tra Helsingborg e Sedriano). Il suo ultimo libro pubblicato da Iperborea con la traduzione di Andrea Bernardini, è Filosofia minima del pendolare. Larsson sostiene che quelli italiani sono i lettori ideali perché leggono con la testa e col cuore.

È stata dunque riscoperta la via del mare?

Questo mi sembra sia avvenuto in Italia soprattutto, un Paese che in effetti, contrariamente a quello che si dice, non è di navigatori; e non è neanche un Paese di mare, nonostante le Repubbliche Marinare, quanto piuttosto di bordo di mare. Più che un ritorno, dunque, è una scoperta: del fatto di avere del mare attorno che non serva solo a pescare o rifornire ristoranti; Fofi chiamava i pescatori «i contadini del mare». La stessa Sardegna è un’isola di terra. Una volta andava di moda questa cosa del giro del mondo in barca a vela, una mania che colpiva inglesi, tedeschi, francesi, svedesi. Italiani quasi nessuno.

Chi critica gli equipaggi della Flotilla usa, tra le altre cose, parlarne come di «croceristi». Che poi chi usa questo termine in senso dispregiativo appartiene spesso a un’area politica che è la stessa da cui provengono i più beceri e irrispettosi frequentatori del mare.

Sì e la navigazione di suo interessa sempre meno, questo anche in Svezia. Si va in barca per le ferie estive, di porto in porto, ci si ferma appena possibile. Non si mette insieme un equipaggio per il gusto di andare. In Italia non è meglio: ero a Sanremo un sabato, la scorsa primavera, il vento era perfetto, in porto ci saranno state duemila barche. Ne ho viste uscire tre, che magari sono andate ad ancorare subito davanti a una spiaggia. Chi critica la Flotilla non ha capito che non è da tutti affrontare il mare, il maltempo. Fare il marinaio è un lavoro che non si improvvisa, non è che prendi e salpi alla volta della Striscia di Gaza così. In queste barche ci sono veri marinai, almeno parte di chi è a bordo lo è.

Il punto è che la maggioranza non ha idea di cosa sia davvero stare in mare; rispetto al navigare rilevano notizie inutili. Ricordo anni fa, all’uscita in Italia del Pirata Long John Silver, venne fuori che D’Alema aveva letto e apprezzato il mio libro. Mi chiamarono diverse testate nazionali italiane per chiedermi cosa ne pensassi. Io risposi «chi è D’Alema?». Ecco questo è il livello, siccome il politico era velista e mi aveva letto avremmo dovuto avere qualcosa in comune. Nel mare c’è tutto e può capitare di tutto. Ho navigato per il Mare del Nord, sono arrivato in Scozia a forza sette, otto: anche quello è il mare. Ho questa fissa di sfatare il mito romantico, a volte il mio editore mi sgrida, ma bisogna capire che il mare può essere cattivo, pericoloso e farti vivere esperienze che in terra non sogneresti neanche. Dà anche incredibili soddisfazioni, quando arrivi alla meta con le tue forze senza chiedere niente a nessuno. Non è un’impresa come un’altra, non è salire in macchina. Anche solo per questo gli equipaggi della Flotilla meritano rispetto.
Mi chiedo che fine faranno le barche, non sono proprietà di Israele, ma del Paese della bandiera battuta dalle singole imbarcazioni. Stiamo a vedere. A livello politico spero che non si perda l’attenzione sull’Ucraina o sul Myanmar, è difficile, anche emotivamente, agire per tutto ciò che di male accade nel mondo.

I movimenti però possono orientare i governi.

Ci sono momenti della storia in cui la pressione congiunta di individui, associazioni, giornali lo ha fatto succedere, forse a un certo punto accadrà. In quei casi è come se si cristallizzassero mille decisioni. Certo non bisogna avere l’illusione che basti un giorno di azione a fare cambiare idea o costringere a cambiare passo. Bisogna provare però. Ricordo la protesta qualche anno fa di un cittadino americano davanti alla Casa Bianca, seduto col suo cartello. Un giornalista gli chiese se secondo lui questo avrebbe cambiato il mondo, l’uomo rispose che sperava almeno che il mondo così non avrebbe cambiato lui. È questo il fondamento della resistenza, non ridursi alla disperazione, alla delusione, alla depressione. Mantenere una certa resilienza. Se si perde la speranza di produrre un cambiamento si perde tutto.

Libertà per te si direbbe anche realizzarsi altrove staccandosi da un’origine. Mollare gli ormeggi e le radici.

Posto che la realizzazione di sé dura tutta la vita mi stanca l’enfasi sulle radici, sintomo spesso sintomo di un campanilismo diffuso. In Lombardia durante la campagna elettorale per le europee mi aveva colpito questo manifesto che indicava oltre all’età dei candidati il loro luogo di nascita. Come se il posto in cui si viene al mondo rimanesse determinante tutta la vita, è anche un modo per sollevarsi da alcune responsabilità. Sono così perché sono nato lì. Ora c’è anche il business dell’esame del DNA per capire le proprie origini, che mi sembra anche molto irrispettoso verso tutti gli orfani del mondo. Più che chiedere a qualcuno di dove sei sarebbe più interessante chiedergli dove stai andando.

Osserva bene Paolo Lodigiani nella postfazione al «Cerchio Celtico» che un conto è la letteratura di mare, un conto quella di barca. La tua appartiene alla seconda categoria.

Sì e anche Conrad nel suo libro Lo specchio del mare lo diceva, i marinai in generale non amano il mare, non cadono nella trappola delle mitologia del mare che può essere sorridente e anche terribile, amano piuttosto le loro barche, che rappresentano la sicurezza, e le difendono anche a rischio della vita.

Israele fermando la Flotilla in acque internazionali ha compiuto un atto di pirateria, tema che conosci bene, devi la tua notorietà al pirata dell’Isola del Tesoro.

Sì e ricordo che lo stesso Stevenson dice espressamente di Long John che lui non era un pirata come tutti gli altri. I pirati erano perlopiù violenti, brutali. Avevano adottato una sorta di democrazia per evitare la tirannia di un capitano. Long John era un altro tipo di pirata, i personaggi dei romanzi devono essere eccezioni, stravaganze, come lo erano Madame Bovary, Don Chisciotte e Anna Karenina. Stravaganti che però hanno dentro di loro qualcosa di tutti noi in cui potersi riconoscere. In quanto alla condotta di Israele rispecchia il lato peggiore della pirateria.

Le tue trame avventurose sarebbero perfette per la trasposizione cinematografica. Hai pensato o ti è stato proposto di farne un film o una serie?

Mi è capitato, col Cerchio Celtico, ad esempio, ma sono nati problemi sul tipo di barca da utilizzare e questioni assicurative. Anche sul Porto dei Sogni Incrociati c’è stata la proposta di una regista italiana ma poi il produttore voleva cambiare il finale, cosa che non avrebbe avuto senso e avrebbe fatto perdere appeal alla storia, e non se ne è fatto più niente, come pure con l’Occhio del Male. Il Pirata Long John lo voleva una produzione hollywoodiana venti anni fa, offrivano molti soldi ma pretendevano tutti i diritti, il merchandising, l’utilizzo per fumetti, riduzioni teatrali e la pubblicità in una catena di ristoranti americana che ha lo stesso nome del pirata. Ho detto di no.