La madre è la persona che ci ha tenuto in grembo, che spesso ci è stata più vicina nella vita, ma la conosciamo davvero? È la domanda che si pone Julia Deck nel suo ultimo romanzo Ann d’Inghilterra (Adelphi), appena tradotto da noi, vincitore in Francia del Premio Médicis 2024.

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È proprio lei, l’Ann del titolo, il personaggio di cui l’autrice vuole indagare i misteri, avventurandosi per la prima volta nel genere auto-fiction: il punto di partenza è il momento drammatico in cui rischia di perderla, quando la trova in casa sdraiata sul pavimento, colpita da un ictus. Salvata in extremis, resta in parte paralizzata e per Julia inizia un viaggio in prima persona, tra ospedali, medici scontrosi, burocrazia, battaglie per ottenere le cure e un posto per la riabilitazione in una Rsa.

In parallelo, il racconto che riporta al passato della madre: nata negli anni ’30 nell’Inghilterra operaia, capace di sfuggire al suo destino attraverso l’amore per la letteratura, buoni voti e borse di studio, fuggita in Francia cavalcando in pieno l’onda di libertà del periodo tra i ’60 e i ’70. Molti viaggi attraverso l’Europa, la Nouvelle Vague, la Swinging London, e alla fine il matrimonio con un coetaneo francese, padre della scrittrice. Coraggiosa e forte, è sempre rimasta però distante e straniera, con un lato oscuro mai svelato, seppellito tra gli intrecci della sua famiglia d’origine inglese.

Julia Deck è nata a Parigi da padre francese e madre inglese. Ha pubblicato cinque romanzi tradotti in molte lingue. L’ultimo, “Ann d’Inghilterra”, si è aggiudicato il Premio Médicis 2024 (foto Joel Saget / AFP via Getty Images).

È la prima volta che scrive un libro in gran parte autobiografico: che cosa l’ha spinta a raccontarsi?
Finora mi ero sempre sentita lontana da questo tipo di narrativa. La prima idea era nata ripensando alla storia della mia famiglia materna inglese, dove sospettavo ci fosse una sorta di segreto, mai apertamente raccontato. Più tardi la cosa che mi ha davvero convinta è stata l’esperienza con mia madre, dopo che ha avuto un ictus e ho dovuto seguirla nell’iter di cura.

La malattia o la morte di un genitore è qualcosa a cui non si è mai davvero preparati?
Ci pensi, lo immagini, ma se arriva quel giorno non ti sembra vero: quando ho realizzato che stavo perdendo mia madre sono iniziati mille sensi di colpa, mi chiedevo se l’incidente si potesse evitare, mi crocifiggevo per non essere stata lì presente…

“Ann d’Inghilterra” di Julia Deck, Adelphi (pagg. 201, euro 19).

Racconta che l’impatto con gli ospedali e le istituzioni mediche pubbliche francesi è stato difficile.
Una vera catastrofe, sapevo che dopo il Covid le cose erano peggiorate, che c’erano meno soldi, ma ero impreparata a un tale disastro: soprattutto rispetto al modo assurdo in cui le persone vengono trattate. Ci si aspetta una risposta medica e se ne ottiene una amministrativa o commerciale. È così che ho scoperto il mercato delle case di cura. Mentre mi arrabbiavo, mi disperavo o litigavo, ho iniziato a pensare che non era una cosa solo mia, ero davanti a un problema sociale. E volevo scriverne, provare a fare letteratura anche di questo argomento, che di solito è tabù, nessuno vuole pensarci fino a quando non deve affrontare una situazione simile.

Anche nel racconto più drammatico ha deciso fin dall’inizio di usare comunque il filtro dell’ironia, una chiave comune agli altri suoi libri.
Credo che mi venga naturale, uno humour che suppongo di aver ereditato dal ramo britannico della mia famiglia. È un modo di vedere il mondo, e anche una sorta di protezione: se riesci a infilare un po’ di ironia anche nelle cose più terribili, tutto diventa più gestibile.

L’altra parte del libro, che si alterna all’attualità, fa un salto indietro nel passato, seguendo le tracce di sua madre e della sua famiglia inglese: anche per lei è sempre stata in qualche modo “straniera”?
Anche se siamo molto legate, lei è sempre stata un enigma, ho sempre sentito che fra noi c’era una porta chiusa costruita con molti silenzi, cose non dette. Mi è “straniera” nel senso francese del termine, che è doppio, vuol dire anche “sconosciuta”. Un personaggio perfetto per un romanzo.

Pensa di essere riuscita a trasformarla in un personaggio, guardandola in modo oggettivo?
Ci ho provato, scrivendone ho provato a scoprire le sue zone d’ombra: ho sempre sospettato che ci fosse qualcosa di falso nel nostro albero genealogico, un fatto accaduto prima della mia nascita, nell’Inghilterra operaia in cui lei è cresciuta. È stata la parte più divertente, fare ricerche negli archivi su quel periodo storico, dagli anni ’30 ai ’70, cercare documenti, scavare tra le fotografie di famiglia, per poi ricucire questi dettagli con l’unico diario di mia madre (ne aveva scritti tre, due li ha distrutti) e i pochi racconti che mi faceva quando ero piccola. Alla fine non ho inventato nulla, solo i nomi sono stati cambiati.

Ha trovato la sua verità?
Non ho svelato il segreto. Mi aspettavo delle verità semplici, sì o no, bianco o nero, invece ho trovato nuove idee, un modo diverso di vedere la situazione. Ho capito che nella parola verità non c’è nulla di oggettivo, non riguarda i fatti in sé, piuttosto un adattamento che ti permette di affrontare la realtà relazionandoti con le persone vicine.

Ha sempre dovuto navigare tra due lingue e due Paesi, qual è quella che sente propria?
Può sembrare strano, ma la mia vera lingua materna è quella di mio padre. Mi sento profondamente francese e in Inghilterra, oggi come ieri, continuo a sentirmi un’estranea, anche se benvenuta.