di
Vera Martinella

Al congresso Europeo di Oncologia a Berlino presentati molti studi con tanti farmaci diversi efficaci per ridurre il rischio di recidive (molto frequente)

I risultati presentati nelle sessioni più rilevanti del congresso annuale della European Society for Medical Oncology (Esmo), la Società Europea di Oncologia Medica, in corso a Berlino, non hanno tradito le aspettative: le nuove cure per il tumore della vescica sono molte e molto promettenti. 
«Dopo decenni di progressi a piccoli passi c’è stata un’accelerata, come se avessimo messo il turbo – commenta Sergio Bracarda, coordinatore delle linee guida dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) sulle neoplasie vescicali e fra i maggiori esperti italiani su questa malattia -. Gli studi esposti a Esmo 2025 non solo sono numerosi, ma indicano benefici con terapie differenti in vari sottotipi di carcinoma vescicale, sia negli stadi iniziali che in quelli più avanzati».
Sebbene non sia fra i più noti, il tumore della vescica è molto diffuso: rappresenta la quinta neoplasia per incidenza in Italia, con circa 31mila nuovi casi stimati nel 2024.

Casi in aumento, specie fra le donne (per colpa del fumo)

«Il carcinoma uroteliale, chiamato più comunemente tumore della vescica, è una neoplasia maligna che ha origine dall’urotelio, la mucosa che riveste internamente la vescica  — spiega Bracarda —. Nella metà circa dei casi è collegato al tabacco, infatti i casi sono in aumento soprattutto fra le donne, sempre più tabagiste. Il principale campanello d’allarme è la presenza di sangue nelle urine: è un segno evidente che va segnalato il prima possibile al proprio medico e allo specialista urologo per eseguire esami più specifici con intento diagnostico (anche se può espressione di varie patologie anche benigne). Il tempo è prezioso: arrivare alla diagnosi precocemente significa non solo che le possibilità di guarire sono maggiori, perché la malattia è ancora localizzata e non ha dato metastasi, ma anche poter essere curati con terapie meno invasive, con minori effetti collaterali e una qualità di vita migliore».
Nel 75% dei pazienti la malattia viene individuata allo stadio iniziale ed è confinata alle parti superficiali (il tessuto che riveste la superficie interna della vescica) senza invadere la parete muscolare, quando è possibile intervenire chirurgicamente con buone opportunità di guarigione, tanto che a cinque anni dalla diagnosi nelle prime fasi sono vivi in media otto pazienti su 10
Di più difficile gestione sono i casi cosiddetti «muscolo-infiltranti» quando il tumore è più aggressivo ed esteso alla parete muscolare o interessa gran parte dell’organo, per cui è necessario l’intervento di cistectomia radicale (ovvero l’asportazione dell’intero organo, dei tessuti e dei linfonodi adiacenti) insieme a chemioterapia e altri farmaciIn una minoranza di casi ben selezionati si può cercare di preservare la vescica con una combinazione di chirurgia, chemioterapia e radioterapia.



















































Terapie standard e nuovi obiettivi

Uno dei problemi principali da risolvere, per puntare alla guarigione di un numero maggiore di pazienti e per rallentare la progressione della malattia in chi ha già una neoplasia avanzata, è l’alta percentuale di recidive che caratterizza i tumori vescicali, sia muscolo-infiltranti che superficiali.
«La scelta del trattamento definitivo più indicato dipende dallo stadio e dal grado della malattia – chiarisce Lorenzo Antonuzzo, direttore dell’Oncologia Medica all’Azienda Ospedaliero Universitaria Careggi, Università di Firenze -. Se il tumore non è invasivo, il trattamento è rappresentato proprio dalla sua asportazione, cercando di risparmiare quando più possibile la vescica. Nei casi di carcinoma invasivo, invece, lo standard è la cistectomia radicale,  preceduta e seguita da cicli di chemioterapia». 
«L’obiettivo a cui puntano le sperimentazioni più promettenti è aumentare le probabilità di guarigione, sia in chi ha una neoplasia muscolo-infiltrante localizzata, sia nelle persone con carcinoma superficiale, ma aggressivo (ad alto grado) – sottolinea Giuseppe Procopio, direttore del Programma Prostata e Oncologia Medica Genito-Urinaria alla Fondazione IRCSS Istituto Nazionale Tumori di Milano -. Un obiettivo che pare raggiungibile sfruttando l’immunoterapia, i nuovi anticorpi coniugati (ce ne sono molti in arrivo) e le target therapies mirate contro alcuni bersagli, come Her2 e FGFR, dei quali abbiamo imparato a capire l’importanza anche nella vescica». 

Lo studio POTOMAC: possibilità di guarire

Circa la metà dei pazienti con carcinoma della vescica non muscolo-invasivo viene classificata ad alto rischio di progressione di malattia o di recidiva a causa di determinate caratteristiche del tumore, tra cui il grado e lo stadio.
Ed è per queste persone che arrivano da Berlino novità rilevanti dallo
studio POTOMAC (di fase tre, l’ultima prima dell’approvazione di una nuova cura) i cui esiti hanno mostrato che l’aggiunta di un anno di trattamento con durvalumab alla terapia di induzione e mantenimento con Bacillus Calmette-Guérin (BCG) ha prodotto un miglioramento significativo della sopravvivenza libera da malattia. L’attuale standard di cura è costituito dalla chirurgia endoscopica (TURBT) seguita dall’instillazione di BCG direttamente nella vescica, ma circa l’80% dei pazienti presenta una recidiva di malattia a cinque anni. Si procede così con altri cicli di terapia o ripetuti interventi chirurgici, «ma i risultati del trial POTOMAC (contemporaneamente pubblicati sulla rivista scientifica The Lancet) indicano che l’aggiunta dell’immunoterapia con durvalumab all’attuale cura standard porta a una riduzione del 32% del rischio di recidiva e si stima che l’87% dei pazienti sia vivo e libero da malattia a due anni (rispetto all’82% con la cura attuale) – dice Antonuzzo -.  Una vera innovazione, in una categoria di pazienti per i quali non si registravano progressi da almeno un decennio. Diventa così più concreta la possibilità di guarigione anche in pazienti ad alto rischio di recidiva». 

Lo studio IMvigor011

Lo studio di fase tre IMvigor011 si è invece concentrato sui pazienti con carcinoma muscolo-infiltrante, sottoposti a cistectomia, ai quali è stato somministrato post-chirurgia una immunoterapia con atezolizumab per cercare di ridurre il rischio di recidiva della malattia: «Viene sfruttata l’analisi del DNA tumorale circolante (ctDNA) per accertare la possibile presenza di malattia minima residua dopo la chirurgia e ricercare le “mutazioni bersaglio” per specifici bio-farmaci – spiega Bracarda -. Ai pazienti positivi al test ctDNA, nei quali dunque risultano esserci cellule cancerose in circolo, è stata somministrato il farmaco atezolizumab, a quelli con ctDNA negativo no. I risultati (i cui dettagli saranno presentati nel simposio presidenziale lunedì 20 ottobre) indicano che l’aggiunta dell’immunoterapia, in queste persone, ritarda l’insorgenza di un’eventuale recidiva e prolunga la sopravvivenza. Dai dati emerge anche che in chi è negativo al test ctDNA il pericolo di ricaduta è minore, il tasso di sopravvivenza alto e si può dunque evitare il trattamento immunoterapico». 

Lo studio KEYNOTE-905

La stessa categoria di persone, quelle con un carcinoma carcinoma vescicale muscolo-invasivo localizzato, sono state arruolate nello studio (sempre di fase tre) KEYNOTE-905, presentato durante la sessione presidenziale di sabato 18 ottobre: «Parliamo di pazienti che hanno un alto rischio di recidiva, ma questo trial si è concentrato su quelli che non sono candidabili o non vogliono fare la chemioterapia standard a base di cisplatino – spiega Procopio -. La sperimentazione ha valutato, quindi, un’associazione di un anticorpo coniugato (enfortumab vedotin) più immunoterapia (pembrolizumab) per tre cicli prima dell’intervento chirurgico e per sei cicli dopo (seguiti da 8 cicli aggiuntivi di pembrolizumab) in 170 pazienti, rispetto alla sola chirurgia in 174 pazienti». 
«L’aggiunta preoperatoria di enfortumab vedotin più pembrolizumab  ha migliorato significativamente la sopravvivenza libera da recidive, la sopravvivenza generale dei partecipanti e la quantità di persone che hanno risposto alla cura – prosegue Patrizia Giannatempo, oncologa all’Istituto Nazionale Tumori di Milano . E gli effetti collaterali sono stati simili a quelli con la chemioterapia. E’ la prima volta che riusciamo ad avere un risultato più efficace prima della cistectomia radicale e questo potrebbe rappresentare un nuovo standard di cura».
Giannatempo è anche prima autrice di un’altra ricerca sul carcinoma uroteliale avanzato (lo studio di fase tre THOR), presentato al convegno di Berlino, che dimostra come la riduzione della dose di erdafitinib non comprometta l’efficacia del trattamento. «Circa metà dei pazienti ha necessitato una riduzione posologica a causa di effetti collaterali (come stomatite o sindrome mano-piede) – conclude l’esperta -. Nonostante questi aggiustamenti, la sopravvivenza globale e il controllo della malattia sono rimasti invariati. Questi risultati confermano che possiamo gestire le tossicità adattando la dose senza compromettere l’efficacia della terapia. Lo studio supporta quindi un approccio terapeutico più flessibile e personalizzato per i pazienti fragili o intolleranti al dosaggio standard».

19 ottobre 2025 ( modifica il 19 ottobre 2025 | 16:02)

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