Il libro “L’arte di fare affari” sta per compiere 38 anni, ma per capire l’approccio di Donald Trump alla politica estera la fonte migliore resta il suo best seller del 1987. Come spiega Dave Harden, uno degli inviati speciali di Barack Obama in Medio Oriente, Trump inizia i negoziati (d’affari allora, politici oggi) con proposte estreme, vere e proprie bombe, minacce che spostano la conversazione sulle sue condizioni, costringendo la controparte a reagire. Il tycoon quindi inquadra la trattativa in termini di “vittorie” o “sconfitte”, senza sfumature, motivando il suo team (oggi, i suoi elettori) a schierarsi dietro un obiettivo chiaro che semplifica la complessità della situazione.
Creare un senso artificiale di urgenza è un altro dei suoi tratti distintivi, mentre la sua imprevedibilità tiene i negoziatori sulle spine, compromettendo la loro capacità di prepararsi alla sua prossima mossa. Da presidente, Trump ha aggiunto anche l’arma delle dichiarazioni audaci sulle piattaforme pubbliche, che crea ulteriore pressione sulla controparte.
Sono tattiche ad alto rischio, sottolinea il diplomatico, che possono danneggiare relazioni a lungo termine e creare un ambiente polarizzato, e anche isolare Trump.
Il capo della Casa Bianca ha cercato di usarle per otto mesi in Medio Oriente, invano. Poi, il 9 ottobre, Israele e Hamas hanno firmato un cessate il fuoco, ponendo fine a due anni di guerra che aveva resistito a oltre una dozzina di iniziative diplomatiche. Eppure il quadro dell’intesa ricorda da vicino proposte che erano fallite ripetutamente, sollevando interrogativi sul perché questa volta abbia avuto successo. Harden è convinto che lo stile di Trump abbia attecchito grazie agli effetti di due anni di guerra devastante e agli attacchi israeliani del 9 settembre a Doha, che hanno rappresentato una svolta decisiva. «Il presidente era furioso che Israele avesse dato un preavviso minimo di attacchi sul territorio di un partner chiave degli Stati Uniti – dice –. Trump dunque ha usato il passo di Israele come un’opportunità per riunire gli Stati arabi: e infatti quasi 60 Paesi musulmani si sono riuniti per mostrare solidarietà al Qatar».
Queste pressioni convergenti hanno creato il terreno adatto, e Trump ha messo in modo la sua “arte” in tutta la sua aggressività. Quando Hamas ha risposto al piano senza approvarne tutti i dettagli, Trump ha dichiarato pubblicamente che Hamas era «pronto per una pace duratura» e ha ordinato a Israele di interrompere i bombardamenti.
Quando i leader arabi hanno respinto il testo rivisto il 6 ottobre, la Casa Bianca lo ha comunque reso pubblico. Poi Trump ha minacciato pubblicamente Hamas, ha fatto pressione su Netanyahu dietro le quinte e ha fornito incentivi al Qatar affinché riprendesse il suo ruolo di mediatore.
«La novità è stata il livello di impegno americano – continua Harden – e anche la prontezza di Trump, a fare leva non solo su Hamas, ma chiaramente anche su Netanyahu, dicendogli di fatto: prendere o lasciare. E lasciare significava che non avrebbe più sostenuto la guerra». Intanto, secondo l’analista, «per Hamas, a questo punto qualsiasi cosa consenta al gruppo di sopravvivere è considerata una conquista». Se in Medio Oriente la ricetta ha dato risultati grazie a una convergenza di tempismo, condizioni propizie sul terreno (per Israele, la campagna biennale aveva raggiunto obiettivi militari significativi) e un’opportunità, nei confronti di Putin l’arte degli affari di Trump continua a naufragare. Il motivo? Trump minaccia pressione sulla Russia — sanzioni, armi a Kiev —, ma poi fa marcia indietro, ogni volta.
L’ultimo “bastone” avrebbe potuto rivelarsi particolarmente efficace, in questo momento del conflitto: i Tomahawk. Il Cremlino non vuole vederli sul campo di battaglia. Putin infatti ha detto al presidente Usa che il fatto che stesse anche solo discutendo dei missili a lunga gittata era motivo di profonda preoccupazione. E dopo la telefonata del capo del Cremlino con Trump, improvvisamente i Tomahawk sono fuori discussione. Venerdì Trump sarebbe stato “duro” nel dire chiaramente di no a Volodymyr Zelensky, accorso alla Casa Bianca per supplicarlo a concedergli l’arma.
Trump ha già usato efficacemente la leva delle forniture di armi statunitensi nei confronti di Kiev, che ha di fatto accettato un cessate il fuoco lungo la linea del fronte attuale, una grande concessione. È con Putin che Trump sembra aver dimenticato che il potere diplomatico non funziona senza vero “hard power” alle sue spalle, Machiavelli insegna. Perché? Tutte le ipotesi sono buone. Intanto, l’ottimismo del premier britannico Keir Starmer che una proposta di pace Usa per l’Ucraina modellata sul piano per la Striscia di Gaza potrebbe sfociare in una tregua, è certamente mal riposto.