«Il corpo è il confine tra ciò che siamo e ciò che il mondo ci permette di essere». Con queste parole Martina Albini, Coordinatrice Centro Studi di WeWorld e curatrice del libro, introduce In Rivolta. Manifesto dei corpi liberi (Castelvecchi). Un saggio politico e corale –  scritto a moltissime mani – «in cui i corpi parlano in prima persona». E, come spiega Vera Gheno – tra le voci “sorelle” di WeWorld che hanno partecipato – «riguarda proprio tutti, chiunque abbia un corpo. Il fatto che alcuni possano portarlo in giro senza intoppi è un privilegio a tempo. Perché ad un certo punto, se va tutto bene, si avrà un corpo vecchio».

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Maternità, mestruo, grasso, vecchiaia. In Rivolta è il Manifesto dei corpi liberi (WeWorld)

Il libro racconta dunque storie di corpi che subiscono pressioni e discriminazioni, ma anche di come, attraverso pratiche quotidiane, trovino modi per resistere e affermarsi. Sono corpi che mestruano, provano piacere o non consentono al sesso. Corpi non conformi, perché grassi, disabili, razializzati. Corpi che vivono il disagio della gravidanza. Che vengono annullati nel lavoro di cura. Corpi che diventano campi di battaglia negli scenari di conflitto. Corpi che invecchiano, nel pregiudizio.

Le attiviste protagoniste del libro ci invitano, indirettamente, a pensare alla nostra personale esperienza.

Qual è il momento in cui abbiamo sentito il nostro corpo non rispettato? Quando, invece, lo abbiamo sentito libero? Ci hanno pensato loro a rompere il ghiaccio. Ecco le risposte che ci hanno dato a queste domande.

Azzurra Rinaldi, Sarah Malnerich, Chiara Gregori e Vera Gheno: tra le venti autrici di In Rivolta. Manifesto dei corpi liberi (Castelvecchi). Il ricavato delle vendite andrà a sostegno dei progetti di WeWorld.

La volta in cui ho sentito il mio corpo non rispettato
La prima visita ginecologica

«La reazione d’istinto a questa domanda è… boh! Non so, non rispondo. Non è vero? Ma poi, a pensarci bene, sono tanti gli episodi che vengono alla mente. E allora, ecco: ricordo il mio corpo alla prima visita ginecologica, fatta da ragazzina, con un ginecologo uomo. Mi ha guardata fissa negli occhi, mettendomi in un disagio enorme. La fregatura, in queste situazioni, è che non sai che puoi ritenere quell’atto sbagliato. E allora esci da quel consultorio e non sai come collocarlo, quello che hai vissuto. Eppure nel mio caso, quell’episodio ha determinato il modo in cui ho scelto essere medica e ginecologa. Quel momento mi aiuta oggi a non sentirmi mai solo potenziale vittima. Mi ricorda che posso anche io causare malessere».

Chiara Gregori, ginecologa e sessuologa. (Il suo ultimo libro è Oggi mi sento una favola! Essere cicliche: ormoni, emozioni e consapevolezza, 2025).

In ospedale, mamma senza nome di un bambino disabile

«Credo che il momento in cui il mio corpo è stato meno libero, quello che adesso sento bruciare di più dopo diversi anni, è stato in una terapia intensiva quando, come genitore di un bambino in lotta per la sopravvivenza, ho cominciato a perdere completamente forma in quanto persona, in quanto madre, in quanto donna. Sono stati mesi di vita intera, quotidiana e costante, all’interno di un’istituzione totale da spettatrice, inerme: una persona che è lì, e dà anche un po’ fastidio. Madre di un bambino con una disabilità gravissima che immagina che la sua vita sarà sempre così. Una donna che perde anche il proprio nome: nessuno mi chiamava più Valentina. Per tutti, dal primario al tipo con cui mi fumavo la sigaretta e che stava in pausa dalle pulizie, io ero “mamma”, “mammina”.

Con tutti i livelli di relazione nosocomiale, perdi contatto con la tua persona, lo mantieni solo con le altre mamme, le co-cellanti, quelle che stanno nel tuo stesso contesto di sospensione e disperazione. Un anno in ospedale in cui anche lavarsi è qualcosa che fai frettolosamente per tornare nella tua detenzione, un anno di sospensione totale di rapporto con il corpo, con te stessa e con quello che gli altri vedono di te. Così, in proiezione, è tutta la vita di una caregiver, che in questa società è un fantasma. La cura segrega in casa, ed è una segregazione eterna, che dura finché ce la fai, finché non muori. E a quel punto la persona che assisti diventa un problema della società. Quel momento di perdita del mio immaginario, del contorno del mio corpo, di annullamento, è fortunatamente finito, ho fatto la mia rivoluzione e a fatica sono rientrata in una collettività ricercata e necessaria, salvifica».

Valentina Perniciaro, attivista e caregiver, fondatrice e portavoce di Tetrabondi Onlus, che ha l’obiettivo di riscrivere il paradigma della disabilità. Il suo primo romanzo è Ognuno ride a modo suo. Storia di un bambini irriverente e sbilenco, edito da Rizzoli (2022).

In gravidanza

«Tra i vari momenti in cui ho sentito il mio corpo meno libero – perché tutta vita delle donne è condizionata dal corpo che abitano – scelgo in maniera politica e liberatoria la gravidanza, che non tutte vivono nel modo in cui la narrazione ufficiale sull’esperienza racconta. Io non mi sono sentita a mio agio in quel corpo, che non riconoscevo più come esclusivamente “mio”, un po’ per le limitazioni che sentivo di avere e un po’ per le pressioni che ho percepito».

Il momento in cui sento il mio corpo libero

«Il momento in cui ho sentito il mio corpo più libero è stato quando abbiamo iniziato a portare in giro per l’Italia il Non farcela party, la festa per sole donne, in cui ho capito come occupa, si espande e si muove in uno spazio di fiducia e cura, sicuro, affrancato da una strisciante sensazione di pericolo, scevro dal giudizio, immune allo sguardo maschile».

Sarah Malnerich, autrice, performer, attivista e cofondatrice con Francesca Fiore del blog Mammadimerda. Insieme hanno scritto Non farcela come stile di vita (2022) e Angele del focolare (2023).

«Quando sono in piazza, luogo che abito da quando ho 15 anni e dove sento davvero che il mio corpo è politico. Ma anche quando sono con le amiche, con le sorelle che ho scelto, perché quello è davvero il mio luogo sicuro».

Azzurra Rinaldi, economista femminista, docente di Economia politicapresso l’Università UnitelmaSapienza di Roma, dove dirige la School of Gender Economics. Il suo ultimo libro è Come chiedere l’aumento (2024).

«Ho provato questo momento ben dopo i 40 anni, quando ho capito che potevo allegramente fregarmene del giudizio altrui. Oggi, a 50, che Giantizio o Giantizia mi dicano che sono vecchia, che sono sciatta, che non sono composta non mi fa più nessun effetto: è una vera sensazione di libertà».

Vera Gheno, sociolinguista e traduttrice dall’ungherese. Il suo ultimo libro è Nessunə è normale, per UTET (2025).

«Alla street rave parade anti proibizionista di Bologna, in mezzo a una massa di gente che si riprendeva le strade e si rappropriava dello spazio pubblico ballando».

Sara Manfredi, femminista intersezionale, cofondatrice nel 2013 di CHEAP, progetto di arte pubblica.

WeWorld e il Manifesto dei corpi liberi

Nell’ultimo capitolo, Albini enumera e spiega i “punti” del Manifesto dei corpi liberi. E cioé

I corpi si liberano quando si conoscono.
I corpi si liberano quando mettono in discussione il potere.
I corpi si liberano quando disimparano lo sguardo esterno.
I corpi si liberano quando riscrivono le regole.
I corpi si liberano quando smettono di imporsi un’accettazione
totale.
I corpi si liberano quando occupano spazio.
I corpi si liberano quando abitano spazi sicuri.
I corpi si liberano quando sono visti e ascoltati.
I corpi si liberano quando non dimenticano le esperienze
ai margini.
I corpi si liberano quando diventano anticorpi reciproci.

Infine, i corpi si liberano quando diventano anticorpi reciproci

Ecco, In Rivolta è esattamente un’espressione di questo ultimo punto. Un lavoro corale, nato dall’esperienza di WeWorld, per dire che «Nessun corpo è un’isola». E per affermare l’importanza di «creare alleanze con corpi complici». Perché la nostra esperienza non è un’eccezione, ma parte di una storia più grande e condivisa». E quindi sostenersi e proteggersi a vicenda significa costruire «una rete di anticorpi contro le violenze interiorizzate e sistemiche. Da queste alleanze nasce cura collettiva. Un prendersi cura insieme degli effetti delle oppressioni, condividendo responsabilità e risorse, senza lasciare indietro nessuno».