Né verticale né orizzontale (Alegre, pp. 379, euro 22), è uno di quei libri che vale la pena discutere, uno strumento di dibattito più che un arsenale retorico per sostenere una tesi. E a giudicare dalle prime reazioni anche all’edizione italiana del lavoro di Rodrigo Nunes, è anche un libro di cui si aveva a sinistra un gran bisogno.
DOCENTE DI TEORIA POLITICA all’Università di Essex e alla Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro, Nunes ha attraversato gli ultimi due decenni di movimenti collettivi da studioso e da militante, e come tutti ha alternato speranze e entusiasmo a momenti di delusione e scoramento. Si è chiesto testardamente se per cambiare davvero le cose stessimo facendo bene, oppure se ci trovassimo sulla strada sbagliata, in un vicolo cieco.
Nel suo lavoro lo studioso brasiliano recide in maniera decisa quelle che ritiene essere delle false dicotomie, convinzioni che si sono cristallizzate nella prassi delle sinistre, nella sua storia e nelle identità politiche che la contraddistinguono, sostenendo che non bisogna per forza scegliere tra partito o movimento, tra locale o globale, tra avanguardia o spontaneismo, tra alto o basso, tra delega e democrazia diretta.
Piuttosto Nunes sostiene la necessità di pensare il tema dell’organizzazione non come una serie di scelte alternative, di divaricazioni e antinomie, ma piuttosto come un sistema ecologico. Per farlo non si limita a una storia del pensiero del movimento operaio e delle sinistre sul tema, ma parte dall’idea stessa di cosa vuole dire organizzarsi e di cosa vuole dire organizzazione.
ALLA CRITICA dell’autorganizzazione affianca però la necessità – tutta materialista – di valorizzare la pluralità e l’eterogeneità, costruendo un’organizzazione cooperativa e spazi di convergenza in grado di essere adeguati agli obiettivi (ambiziosi) postulati ancora oggi dalle sinistre. Passando in rassegna i limiti dell’azione degli ultimi grandi movimenti collettivi che hanno riempito le piazze tra gli anni Zero e gli anni Dieci, quanto l’azione istituzionale del momento populista della sinistra degli anni Dieci, ne mette in evidenza i limiti e gli errori.
Alla fine il lavoro risulta convincente perché l’autore non prende scorciatoie, ma affronta il trauma (parola scelta dall’autore, non da chi scrive) del Novecento e della sconfitta del socialismo reale, tramite un corpo a corpo con la storia del socialismo reale e del determinismo storico marxiano. Quello che alla fine ne trae è che il trauma non giustifica la rimozione degli strumenti che possono garantire di cambiare davvero la società, con il rischio di trasformare l’essere di sinistra con la rinuncia a vincere, e dunque a un modo di essere più che a un’idea politica.
L’INVITO DUNQUE è a recuperare questi strumenti con un approccio che si può definire sincretico: facendo tesoro dei limiti dei movimenti, e dalla consapevolezza del tramonto del partito come unico spazio della sintesi e della sovranità decisionale, afferma che una teoria efficace dell’organizzazione ha bisogno di entrambi questi momenti e altri ancora, pensando l’organizzazione come un sistema ecologico e non come un moloch autosufficiente.
Nel farlo ci invita a non considerare la politica, e dunque la forma che l’azione collettiva assume, in termini morali e di volontarismo etico, ma di misurarci con le sfide che abbiamo di fronte. In particolare Nunes ci dice che per misurarci con la sfida delle sfide del nostro tempo, il cambiamento climatico e l’orizzonte di guerra in cui siamo immersi, non bastano formule consolatorie, ma tocca uscire dalla comfort zone delle nostre certezze per una stagione di creatività organizzativa, di tattiche e strategie, in grado di farci accumulare la forza necessaria per imprimere un’altra direzione al mondo.
Lo studioso presenta in questi giorni il suo libro in Italia: tutte le date del tour su www.edizionialegre.it