di
Federico Fubini
A Vladivostock insolite proteste per l’aumento delle imposte sulle auto importate. Bruxelles deve decidere se sbloccare le riserve russe
L’11 ottobre a Vladivostock, nell’estremo oriente, è accaduto qualcosa che contraddice tutti i cliché e le abitudini effettive della Russia autocratica di Vladimir Putin. Non solo una manifestazione di protesta per una decisione del governo è stata autorizzata, ma i politici locali si sono uniti alla gente e hanno dimostrato anche loro. Contro Mosca. È la prima volta dal Covid che veniva permesso agli abitanti di Vladivostock di scendere in piazza.
Criticavano una misura nella legge di bilancio che, a prima vista, non ha niente a che vedere con l’Ucraina: un aumento esponenziale delle tasse sulle auto importate di seconda mano. Vladivostock ha sempre riservato un’intera collina al parcheggio di vecchi modelli giapponesi giunti via mare e ora rischia di perdere il suo modello economico. Ma anche questo momento di frustrazione delle persone comuni in un angolo sperduto della Russia dice qualcosa della situazione del Paese in guerra e della strategia dei governi dell’Unione europea per aiutare Kiev.
La Russia non è vicina al collasso ed è in grado di continuare ad attaccare l’Ucraina. Ma i limiti economici, industriali, demografici e di finanza pubblica della sua potenza militare nel 2025 stanno diventando più visibili. E orientano ciò che i governi europei stanno cercando di ottenere: vogliono portare Putin a concludere che non potrà centrare i suoi obiettivi di guerra in Ucraina — non per ora — e che quindi gli conviene congelare il conflitto. Non ritirarsi; solo congelare la guerra in Ucraina lungo l’attuale linea del fronte, mantenendola militarizzata e fortificata anche se le armi tacciono, come il Cremlino ha già fatto in Georgia nel 2008.
Anche quella tassa sulle auto d’importazione è un sintomo che per la Russia le risorse non sono illimitate e sul governo cresce la pressione. Perché non si tratta dell’unico nuovo prelievo. Con il 2026 arriva anche un aumento delle aliquote sugli autonomi o le piccole imprese, oltre a un rialzo dell’imposta sui consumi (Iva) di due punti al 22% destinato a riaccendere l’inflazione. Tutto serve, naturalmente, a pagare per la guerra. Con il calo del prezzo del petrolio e la frenata dell’economia — passata da una crescita del 4,1% nel 2024 allo 0,6% previsto dal Fondo monetario internazionale sul 2025 — le entrate di bilancio di Mosca sono giù quasi del 17% nei primi sei mesi di quest’anno. Il deficit si avvicinerà al 3% del prodotto lordo e quel livello pesa molto più che in Europa, perché Mosca ha perso l’accesso ai mercati internazionali per finanziarsi. Può contare solo su banche e risparmio interni. Mancano due mesi alla fine dell’anno e il ministero delle Finanze è riuscito a piazzare appena metà dei titoli di debito previsti sul 2025. La stessa produzione militare ha smesso di crescere (al netto dei droni) e — nota Alexandra Prokopenko su Foreign Affairs — nel 2026 per la prima volta dall’aggressione totale all’Ucraina il bilancio militare non aumenterà, anzi calerà appena.
Gli almeno 220 mila morti russi in Ucraina, le centinaia di migliaia di feriti gravi, più gli almeno 700 mila russi fuggiti all’estero fanno sì che nuova forza lavoro per il sistema militare-industriale sia introvabile. Niente di tutto questo significa che la Russia sia esausta. Il budget dell’esercito resta sempre al 40% della spesa pubblica, una quota quasi doppia rispetto al 2021.
Ma i governi europei più attivi nel sostegno all’Ucraina — Germania, Polonia, baltici, nordici — intravedono un’opportunità ora che l’affanno per la Russia non può che crescere ancora. L’uso delle riserve russe congelate a favore dell’Ucraina per circa 170 miliardi di euro potrebbe essere deciso in dicembre e divenire operativo a marzo. Esso darebbe a Kiev risorse per produrre droni e altri mezzi di difesa per altri due anni circa (il costo della guerra per l’Ucraina oggi è di 172 milioni di dollari al giorno).
Nel frattempo la Russia continua a subire 30mila vittime al mese, fra morti e feriti, per conquistare frazioni trascurabili di territorio nel Donbass. Non potrà farlo all’infinito. Pokrovsk nel Donetsk sembrava spacciata già un anno e mezzo fa, eppure non è mai caduta. Con l’uso intensivo di droni invece il ritmo delle perdite ucraine è rallentato. Concedere l’intero Donbass a Putin significherebbe oggi aprirgli la strada verso l’Ucraina centrale, oltre le fortificazioni del Donetsk. Kiev e gli europei non lo faranno. Aspettano che Putin decida che non può far altro che fermarsi. E congelare il conflitto.
20 ottobre 2025 ( modifica il 20 ottobre 2025 | 23:09)
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